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Il luogotenente di Peschici che diede il suo nome ad una baia in Argentina (errata corrige: Chile) + AGGIORNAMENTI

di Domenico Sergio Antonacci In Argentina la baia Libetta prende il nome dal peschiciano Pasquale Libetta, luogotenente di vascello di 1ª classe e ufficiale in 2ª, in navigazione, al tempo, 1867, sulla nave pirocorvetta Magenta (http://it.wikipedia.org/wiki/Magenta_%28pirocorvetta%29). Lo scopo della navigazione era quello di fare delle rilevazioni idrografiche dei canali dell’Argentina. Ho provato a cercare su Google la baia suddetta..ma senza successo. Che abbia cambiato nome negli anni? AGGIORNAMENTO 4 FEBBRAIO 2015: Ci scrive, nei commenti sottostanti, Giorgio Ardrizzi, esperto di navigazioni storiche in Patagonia. Grazie a lui ora sappiamo dove si trova la baia Libetta, oggi chiamata Bahia Liberta, e situata in Chile, non in Argentina come riportato in precedenza. Una cronaca degli anni ’40 vede citata la baia: El montaje de la virgen sobre el pedestal, de casi 2 metros de altura, fue hecho por el R.A.M. COLO COLO a fines de marzo de 1949, siendo su Comandante el Capitán de Corbeta don Sergio Vattier Bañados y su 2° Comandante el Teniente 2° don Carlos Borrowmann Sanhueza. El 3er. Oficial era el Subteniente don Ricardo Abbot Aguirre, quien fue comisionado por su comandante para retirar la virgen de la iglesia Don Bosco, transportarla a bordo y trincarla “dignamente” para la mar sobre una tarima de madera fabricada especialmente sobre el cubichete de la máquina. En el Parte de Viaje de dicha comisión se lee textualmente: “El 30 de marzo a las 06:10 zarpa de Bahía Liberta a Angostura Inglesa… Se procede a desembarcar la virgen “Stella Maris”, la que es llevada al islote Clío. Una vez dejada en tierra y con la maniobra lista para colocarla sobre el pedestal, sobre el que se construyó una pirámide de concreto armada para afirmar la estatua a su pedestal, se dirige a bajo Capac… el 31 de marzo a las 08:00 zarpa

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Apricenesi povera gente ma….

di Martino N. Specchiulli Il mio Maestro, il compianto Leonardo Tedesco, amava raccontare un aneddoto sugli usi gastronomici ed “igienici” di Apricena nell’immediato dopo-guerra . Nell’edifizio scolastico “TORELLI”, a guerra finita, alloggiava una guarnigione di Inglesi. Il loro Ufficiale, un distinto signore, visto che si era in estate, dopo aver pranzato faceva una passeggiata per gli stretti vicoli del nostro centro storico, cercando un po’ d’ombra.  A quell’ora il popolo di Apricena si apprestava ancora a preparare il proprio frugale pasto, che il più delle volte era costituito o dalla “acqua sale ” o dal più nobile “pancotto”. Siccome le case dei più umili erano costituite da “bassi “ di uno o al massimo due vani, era consuetudine delle donne, anche per mantenere più fresco l’interno dell’abitazione, mondare e sbollentare le verdure davanti il proprio uscio di casa, “ annanz’ ‘u liscjie mì “, o al centro del vicolo e tra una chiacchiera e l’altra con le vicine si collaborava alla preparazione del pasto , usanza questa che garantiva un piatto di minestra anche a quelle donne che quel giorno non avevano racimolato nulla per il pranzo.  L’Ufficiale Inglese, avendo più volte osservato la preparazione di questi piatti, un giorno fece il seguente commento : ” Apricenesi povera gente, ma molto puliti, lavare anche il pane prima di mangiare ! “ , ignorando che quella preparazione non era tanto una norma igienica ma l’esigenza di ammorbidire, di spugnare il pane raffermo diventato ormai duro come il lastricato dei vicoli della Chiesa Madre. Questo aneddoto serviva al nostro Maestro sia per schernire i nostri vicini Sanseveresi ” gente scjocche e truzzulose” , e sia noi ragazzi quando o qualcuno non apprezzava le fette di pane e marmellata o il panino con la “televisione” che la mamma preparava per colazione o merenda,

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Il mestiere del “capëllerë”, quando si vendevano i…capelli !

di Michele Giuliano   Giovanotti piangete, piangete, han tagliato i miei biondi capelli, tu lo sai che eran ricci eran belli, giovanotti piangete con me! Mia madre aveva dei capelli bellissimi. molto ricci e lunghi e di colore biondo scuro. Era veramente uno spettacolo vederla pettinarsi, specialmente nelle giornate d’estate, quando il sole rendeva i capelli ancora più splendenti ed il vento li muoveva con delicatezza. Si sedeva sulla piccola sedia con la seduta in paglia, appoggiava una asciugamani sulle spalle e scioglieva i capelli lunghi e fluenti. A quel punto la nonna e, alla sua scomparsa, mia sorella, si metteva alle spalle della mamma e con “a scatén” cominciava a pettinare i capelli lisciandoli. Vi dirò che in quel tempo pettinare i capelli delle donne era un vero e proprio “mestiere” perché le acconciature richiedevano molta abilità. Bisognava essere bravi già nel pettinarli cercando di non farli spezzare e poi bisognava stenderli facendo una treccia che poi veniva raccolta sul capo arrotolandola in modo da formare un tupé – u tùpp. Ricordo che certe acconciature, soprattutto in occasione di matrimoni o delle festività, erano dei veri capolavori. Non tutti però potevano permettersi di ricorrere all’opera di quella che era una vera professionista a domicilio, “a cap’llér”, il più delle volte questo compito era svolto da una amica, da una vicina o da una della famiglia. Era comunque inevitabile che nell’operazione, molti capelli, spezzandosi rimanessero attaccati alla “scatén”. Bene, questi capelli spezzati non andavano persi ma venivano accuratamente “s-catenati” cioè tolti delicatamente dal pettine e raccolti in carta di giornale. Insieme ai capelli così raccolti si conservavano anche le trecce delle bambine quando si decideva di tagliarle perché troppo lunghe. Si attorcigliavano insieme a gomitolo e si “stipavano” in carta di giornale. Per farne cosa, vi starete chiedendo? E’ presto

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Mestieri di una volta: u’ matunèrë

di Michele Giuliano da San Paolo Civitate  Parlava sempre molto poco mio padre, anzi a volte non parlava proprio, ma ti guardava fisso negli occhi e a noi toccava capire, interpretandone lo sguardo, cosa c’era da fare. La prima volta che riuscii ad intavolare un discorso completo con lui avevo ormai quasi sedici anni. Si parlava ovviamente di politica. Io, come tutti i ragazzi dell’epoca, plasmato dal ’68 appena trascorso, tendevo ai movimenti extraparlamentari di sinistra, lui invece socialista vecchio stampo alla Pertini, si vantava della sua amicizia con l’onorevole Di Vagno. Ricordo comunque che i discorsi tra noi finivano sempre con lui che mi diceva : “ Ch’ t’ crìd mò tu cha p’cchè ha studièt sèp ‘cchiù còs d’ mè? Avùglij angòr a fa fùgn; Avùglij a magnà pèn tòst! Jì tèngh sùl u tèrz avviamènt ma t’è ‘mbarà e t’è perd! ( Credi di saperne più di me perché hai studiato? Hai voglia ancora a cercare funghi; Hai voglia a mangiare pane duro! Io ho solo il terzo avviamento – non c’erano ancora le elementari -, ma posso insegarti ancora molto!). Alla fine aveva ancora ragione lui! E’ proprio così! Lui era in grado di fare tantissime cose che io neppure immaginavo. “T’è mparèt a ‘nnstà! T’è mparèt a sar’m’ntà e a fa a carvunèll! T’è ‘mparèt a pul’zzà i puzz e a v’l’gnà!” ( Ti ho insegnato a fare gli innesti, ti ho insegnato a potare le vigne e a fare la carbonella, ti ho insegnato a ripulire i pozzi e a vendemmiare). A tutto questo potevo solo contrapporre la mia profonda conoscenza del greco, del latino, dei classici e della letteratura. Tutte cose validissime per carità, ma che nel pratico non servivano granché. Uno di quei giorni che lo avevo trovato più disponibile a parlare

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