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Il piatto tipico della pampanella tra Puglia, Abruzzo e Molise

di Domenico Sergio Antonacci (03/09/2013) da www.peperosaintavola.it Vivendo per la maggiorparte dell’anno in Molise non ho potuto non assaggiare la famosa pampanella di maiale molisana, in particolare quella di San Martino in Pensilis, piccolo paese ai confini con la Puglia dove si dice che questa ricetta abbia origine anche se molti paesi della provincia di Foggia la vantano come proprio piatto tipico. Questo termine, pampanella, non mi suonava nuovo (oltre alla denominazione del piatto) e infatti facendo delle ricerche tra i miei file ho trovato un canto di Monte Sant’Angelo avente come tema proprio la pampanella (Pampanella di viole). Lo stesso canto, inoltre, esiste anche in Salento ma in entrambi i casi non si riferisce al preparato a base di carne di maiale bensì alle foglie degli alberi e dei fiori. Ho fatto anche una ricerca della diffusione dei cognomi Pampanella, Pampano, Pampana, Pampino e Pampina. Il più diffuso, dal sito gens.info, è risultato Pampana, distribuito maggiormente tra Toscana e Lazio. Niente in Molise o Puglia. da gens.info Il mistero si infittiva e dunque sono andato alla ricerca dell’etimologia del termine trovando il termine “pàmpano” o “pàmpino”, dal latino pàmpinus, indicante la foglia della vite o il tralcio intero della vite (a seconda della zone) e i proverbi “Assai pampini e poca uva”, cioè molta apparenza e poca sostanza oppure “Dar dei pampini per uva”, ovvero ingannare. Mi ritrovavo con i canti tradizionali pugliesi. Allora perchè “pampanella” per indicare la carne di maiale preparata in questo particolare modo? E quando meno me lo aspetto trovo la soluzione nel buon Manicone che, ne “La fisica appula”, scritto a cavallo tra ‘700 e ‘800, indica il piatto come tipico del pastori garganici indicando che l’antica lavorazione del “porco cotto alla pampanella” (e già qui le cose si schiariscono) veniva fatta grazie all’utilizzo

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Consigli per il trekking e fotogallery: Abbazia della SS. Trinità di Monte Sacro, Mattinata

di Domenico S. Antonacci Tra le abbazie garganiche quella della SS. Trinità è sicuramente la più suggestiva. Non che Pulsano, Kàlena, Santa Maria a Mare etc siano meno “belle” ma sicuramente il fascino di un luogo raggiungibile solamente a piedi le dona qualcosa di particolare così come il suo trovarsi immersa nel bosco in una commistione tra naturale e antropico davvero unica. La sua storia è lunga, sembrerebbe costruita nel VI secolo, ma probabilmente il luogo era già adibito per altri culti, forse pagani (a Giove Dodoneo); Nel IV secolo d.C. il monte era ancora conosciuto come Monte Dodoneo, consacrato al culto pagano di Giove. Secondo una antichissima tradizione, dopo l’apparizione dell’Arcangelo Michele nella grotta di Monte Sant’Angelo, il vescovo e i prelati della zona si recarono sul Monte Dodoneo, allora sede del culto pagano di Giove e ne distrussero i simulacri dedicando il tempio alla SS.Trinità. Da allora il monte assunse la denominazione di Sacro. Poi l’Abbazia di Monte Sacro fu sede del Convento Benedettino dal VI al XIII secolo d.C. Grazie all’impulso dell’Abate e letterato Gregorio si costituì una vasta biblioteca ,che contribuì a far diventare l’Abbazia uno dei più importanti centri culturali della Puglia del Medioevo. da wikipedia Raggiungere l’abbazia è semplice (indicazioni per chi arriva da Mattinata – indicazioni per chi arriva dalla strada della Foresta Umbra). Una volta raggiunta l’area parcheggio bisogna imboccare il sentiero (segnalato in rosso su rocce e tronchi) per poco più di 1km; si sale di quota per circa 200mt e i tempi di percorrenza possono oscillare dai 30 ai 50min, a seconda del ritmo che si tiene nella camminata. In definitiva si tratta di un sentiero davvero per tutti. Poco più di 1km. Negli ultimi 200mt si può fare una deviazione fuori percorso verso la cima del monte e da

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A Mattejë

Come ogni anno, in occasione dell’anniversario della sua morte, dedichiamo un post alla memoria di Matteo Salvatore. Sono passati 8 anni e questo articolo è stato scritto nel 2005, anno della scomparsa del cantore popolare apricenese. di Alessio Lega da anarca-bolo.ch Un po’ di chiarezza Se l’Italia avesse un minimo di dignità e d’onore l’alta Puglia non sarebbe il luogo del culto di Padre Pio ma di Matteo Salvatore. Matteo Salvatore è stato un miracolo vivente degli ultimi cinquant’anni, un grande poeta popolare, un cantante sopraffino di ineguagliabile musicalità, un ottimo chitarrista con una tecnica autodidatta ma di audace raffinatezza. Le origini della sua arte affondavano nella leggenda: le biografie lo vogliono, pressoché bambino, ad accompagnare un violinista cieco, tale Pizzicoli, portatore di serenate a pagamento. Sembra esserci una sorta di reincarnazione del mito d’Omero alla base della cultura profonda di questo aedo del ’900. La miseria nera che fa compagnia alla quasi totalità degli abitanti del paesino d’Apricena (in provincia di Foggia, dove Matteo era nato nel 1925) è il basso continuo che accompagna tutte le sue opere, il motivo che lo spinge ben presto, come tanti suoi conterranei, a spostarsi a nord. Roma (ma anche Milano, Torino…tutta la via crucis del poer crist emigrante) lo troverà a esercitare il nobile mestiere del posteggio nelle trattorie, dove attira l’attenzione di alcuni intellettuali. Sono gli anni che preludono la riscoperta del patrimonio popolare (quello che avrà la sua eclatante rivelazione nello spettacolo Bella Ciao del Nuovo Canzoniere, presentato al Festival dei due mondi di Spoleto nel ’64). Sono anni in cui Ernesto De Martino, Diego Carpitella e Alan Lomax battono la penisola nel timore (fondatissimo) che presto la televisione di lascia o raddoppia fagociti la cultura contadina. Gli spiriti più sensibili se ne sono già accorti. Matteo canta nelle trattorie

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