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Il sito archeologico di Grotta Scaloria negli scritti del frate Manicone

Foto di Luciana Rignanese

di Michele Eugenio Di Carlo

Si ritiene ordinariamente che la grotta Scaloria, a nord dell’abitato di Manfredonia, sia stata scoperta nel 1932, durante l’esecuzione di lavori di scavo per la costruzione dell’acquedotto Manfredonia – Monte S. Angelo. Si dice anche che l’accesso all’antro carsico avveniva attraverso un orifizio apertosi a seguito dei lavori di scavo, in quanto l’ingresso principale era stato ostruito da materiale terroso sin dal Tardo Neolitico.

Nel 1967, l’esplorazione della parte profonda della grotta aveva portato alla luce i resti di un cerimoniale religioso del IV millennio a. C. legato al “culto delle acque”.

Nel 1979, il preistorico accesso alla misteriosa grotta è stato in parte riattivato per permettere i rilievi dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Genova e delle Università di Los Angeles e del Mississippi del Sud. Nel deposito di ingresso alla grotta è stato rinvenuto materiale ceramico del Neolitico.

Un culto, quello di raccogliere in vasi di ceramica acque ritenute salutari e purificatrici, che secondo gli archeologi Santo Tiné e Eugenia Isetti era stato praticato poche volte e in un arco ristretto di tempo, a causa delle difficoltà di accesso alla parte bassa della grotta o forse perché il cerimoniale religioso non aveva prodotto gli effetti auspicati. Peraltro il rinvenimento di una tomba a fossa contenente più di venti inumati fa anche presumere che il culto sia cessato a causa di un’epidemia che estinse la popolazione. Confortano questa ipotesi gli evidenti segni sui resti umani lasciati dalla malaria. Forse il “culto delle acque” si era praticato per chiedere protezione proprio contro questa malattia. La grotta continuò ad essere frequentata nella parte alta, quella più facilmente accessibile.

Ma grotta Scaloria fu davvero scoperta nel 1932?
L’orifizio, attraverso cui si accede alla grotta, si era davvero aperto a seguito dei lavori di scavo?

Diversi erano nel Settecento gli inghiottitoi noti – dai garganici chiamati “gravi”–, legati geologicamente a fenomeni carsici che permettono alle acque meteoriche di filtrare e penetrare anche per lunghi tratti verticali fino a raggiungere il suolo al livello del mare.

Lo scienziato Michelangelo Manicone ne aveva rilevato una presenza numerosa in tutto il Gargano meridionale. Mancando allora gli strumenti per misurarne la profondità, dagli stretti orifici si gettavano delle pietre e si contavano i secondi passati prima che le stesse toccassero il fondo emettendo un rimbombo. Le gravi ospitavano numerose specie d’uccelli ed erano fresche d’estate e calde d’inverno, tanto che i cacciatori di San Marco approfittavano dei vapori caldi che uscivano dal loro imbocco per scaldare mani intirizzite dal freddo.

Tra gli inghiottitoi, il frate di Vico del Gargano, aveva menzionato quello situato in località “La Scaloria” (rivelatosi poi una grotta ostruita) nel tenimento di Manfredonia. Anche perché vi avveniva un fenomeno naturale che il frate descriveva ampiamente: dall’angusto orifizio usciva di continuo un alito di vento che gli uditi più abili percepivano come un fragore messaggero di informazioni meteorologiche provenienti da un mondo occulto. Un fenomeno che i manfredoniani chiamavano “Capotempo” e di cui i contadini, privilegiati interlocutori nei rapporti ancestrali con la natura, interpretavano misteriosi segnali legati alle mutazioni climatiche e meteorologiche. Scriveva Manicone nella Fisica Daunica: «Se in giorno anche sereno sentono un gran fragore, la tempesta è certa ed essi se ne ritornano in Città senza inoltrarsi avanti per andare a legnare al bosco».

Il neolitico “culto delle acque” non faceva parte delle vaste conoscenze di Manicone, ma l’orifizio di “Scaloria” era sicuramente noto ai manfredoniani sin dai tempi antichi.

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