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Le architetture cubiste di Carpino, dove i contadini furono più bravi degli urbanisti

Foresta Umbra, 1 settembre 1959. La grande foresta incomincia dagli ultimi contrafforti del Gargano e chi sale da Vico se la trova dinanzi improvvisa, come un alto muro verde oltre il quale sembra impossibile procedere. Si vorrebbe che cosi fosse, per il piacere di sorprendere e violentare questa esistenza arborea rimasta immutata nei secoli, ma la strada asfaltata s’avventa con spavalda sicurezza a facilitare il cammino nell’ombroso segreto del bosco. Tuttavia, anche ferita dalla lucida strada, la Foresta Umbra ha conservato quasi intatto il fascino di recesso misterioso, le automobili che la solcano sono poche, e scarsi i clienti che sostano nel piccolo albergo-rifugio costruito in una radura erbosa.
Tra i molti itinerari italiani, quello del Gargano è, forse, il più suggestivo, ma a scoprirlo sono stati gli stranieri i quali, pur essendo in numero esiguo, costituiscono ancora una maggioranza fra i turisti che compiono il periplo dello Sperone d’Italia. Ero partito da San Severo nel tardo mattino, ma il traffico era scarso sulla bella strada che srotola i suoi chilometri costeggiando i laghi di Lesina e Varano, divisi dall’Adriatico più dallo svariante azzurro delle acque che non dai fragili istmi. Il sole era già rovente e tra le stoppie si scatenava la follia canicolare delle cicale. In cima ai colli, aridi ulivi rilucevano come d’alluminio. Fatta una breve deviazione, sostai a Carpino attratto dalla inconsueta architettura del villaggio che dalla provinciale appare come un bizzarro gioco di dadi policromi sovrapposti. Ma salendo il colle in cima al quale Carpino è arroccato, le prospettive si definiscono ed i cubi azzurri, gialli, bianchi diventano case tutte quadrate ed uguali, con terrazze e altane che si rincorrono in un’aerea, ininterrotta scalinata verso il cielo. Camminavo lungo ripide stradine, sovrastate da cascate di gerani che traboccavano dalle terrazze, dai davanzali, dai panciuti, spagnoleschi balconi in ferro battuto, ignaro di avventurarmi fra scenografie che hanno fatto il’giro del mondo col film “La legge”. Un vecchio che passava il tempo a cacciar mosche seduto in un angolo d’ombra della piazzetta, mi raccontò ogni dettaglio dell’avventura cinematografica che l’anno scorso sconvolse l’assonnata quiete estiva di Carpino. Egli sapeva tutto di Gina Lollobrigida, e si dilungò sui dissidi fra la ex Bersagliera e l’attore francese Pierre Brasseur, al quale l’attrice non voleva togliere gli stivali come esigeva il copione considerando il gesto una diminuzione artistica. Brasseur chiamava la Lollo “ attrice di miei stivali” e provocava scene che Yves Montand ed il regista Jules Dassin faticavano a placare. “Alla fine ci hanno truffati tutti – disse il vecchio afferrando a volo una mosca- ci davano mille lire al giorno per fare le comparse, mentre la tariffa sindacale è di cinque mila lire”. Intorno s’era formato un gruppo di curiosi che ascoltavano ed approvavano le parole del vecchio. Erano stati tutti comparse, ed erano andati a vedersi quando il film era stato proiettato a Carpino, ma questo non li aveva consolati del denaro perduto, la gloriola cinematografica gli era costata troppo cara. Un giovanotto, dall’aria vissuta, il proprietario del « Bar Vittoria» dove mi ero fermato per bere un caffè mi spiegò poi che Roger Vailland, l’autore del romanzo “La legge”, trascorre ogni anno le vacanze sulle spiagge garganiche, e che Carpino gli era piaciuto per l’architettura cubista e lo stile unitario che sembra elaborato da un solo urbanista, non dal libero estro di molti contadini, ed aveva preteso che il suo soggetto fosse realizzato in quella cornice. Anche in questo caso è stato uno straniero a giungere in avanscoperta e se oggi si arriva agevolmente a Carpino lo si deve in buona parte a Roger Vailland, la strada di raccordo è stata allargata ed asfaltata per facilitare i viaggi ai suoi cinematografari. Lungo tutto l’arco dello sperone, la presenza degli stranieri è costante, le poche automobili che si incrociano hanno targhe svizzere, francesi, tedesche e inglesi, nei piccoli alberghi risuonano molte favelle, pochissimo l’italiana. Per una inesplicabile deformazione del gusto, i villeggianti nostrani aborrono dai luoghi poco frequentati, quasi temono la solitudine ed il prolungato colloquio con una natura che nemmeno il progresso tecnico è riuscito ad alterare sensibilmente. Da Carpino a Rodi Garganico il tragitto è breve, la strada a mezza costa è come una lunga balaustra sospesa tra il giallo delle stoppie crepitanti sotto il sole ed il refrigerio azzurro dell’Adriatico. A San Menaio, piccola insenatura chiusa fra verdi pini e lucidi strapiombi, il nero basalto, la strada incomincia a salire, ai campi di stoppie si alternano gli uliveti, alberi di fico immensi allargano l’ombrello delle foglie metalliche tra cui pendono i frutti morati che trasudano dolcissimo umore. Poi la vegetazione cede alla roccia irta di ciuffi di lentischio. Con affilati falcetti, gruppi di uomini tagliavano gli arbusti che ammucchiavano ai margini della strada prima di caricarli sui camion in attesa. Intorno, l’aria era greve di odore amaro. Domandai ad un uomo a che servisse quella ruvida messe. « Per i morti, rispose, si fa il traliccio delle corone funebri». Quella evocazione della morte sotto il sole alto e spietato non aveva nulla di tetro, entrava nel ciclo delle attività umane non diversamente dal mietere grano e intridere il pane. La serena compostezza che la gente del Gargano rivela dinanzi ad ogni manifestazione naturale gli deriva, penso, dalla dura esistenza che conducono sull’arido altopiano spazzato dal vento e dalla presenza incombente della grande foresta che domina sull’acrocoro come un gran tempio arboreo destinato ai riti per misteriose divinità antropomorfiche. Superato Vico Garganico, la strada continua fra rocce arroventate e magre siepi di rovi. Di lassù, l’occhio spazia sul panorama vasto e mutevole, fino a Peschici tutto d’oro nella luce meridiana, fino alla visione azzurra delle Isole Trèmiti. Non annunciata dall’infittirsi della sterpaglia, la Foresta Umbra si erge improvvisa ad una svolta della strada come una verde barriera. Si subisce un urto passando dal gran sole all’ombra umida del bosco e per prolungare il refrigerio si procede lentamente sotto le arcate di verdura che faggi secolari intessono fino ad altezze vertiginose. La luce piove filtrata dal fogliame fitto, si attenua a poco a poco fino a spegnersi nel sottobosco, tra le felci alte come un uomo, dove l’ombra è folta, indicibile. Quando la trama delle fronde si dirada, i raggi del sole penetrano come sciabolate fra i tronchi immensi, simili ai fasci luminosi nelle navate ombrose delle cattedrali. Si avanza per chilometri e chilometri in una luce rarefatta, nel silenzio lievitante del bosco, ascoltando il mormorio di polle d’acqua che gorgogliano a fior di terra tra felci e ligustri, alzando gli occhi richiamati dallo svolare degli uccelli che lanciano acuti richiami da fronda a fronda. La Foresta Umbra, la più vasta d’Italia, sta come un umido cuore verde nel giro di arsura del Tavoliere delle Puglie. Per miracolo si è salvata dalla furia, nostra e altrui, di distruggitori di boschi, ma non è riuscita a difendere la sua fauna. Pochi daini e caprioli errano sperduti nell’immenso regno arboreo a ricordare i tempi in cui, a branchi, correvano le piste subito cancellate tra le felci alte. Un guardacaccia incontrato lungo la strada mi ha raccontato di ecatombi fatte nella foresta dalle truppe alleate durante la guerra. « Arrivavano con camion e rimorchio – diceva l’uomo tenendo il fucile imbracciato, sempre a difesa – e per tutto il giorno il bosco risuonava di spari. Non c’era scampo per daini e caprioli, la sera gli autocarri ripartivano per Foggia e San Severo col loro carico sanguinante». Ora, delle timide bestiole è rimasto qualche esemplare su cui i guardacaccia vigilano come su figli proprii, il trasalire improvviso tra le felci del sottobosco è certo provocato da un daino curioso che ci osserva diffidente dal suo nascondiglio. Quando ripartii dal piccolo albergo-rifugio annottava, ma era una notte chiara, trasparente, come se il giorno non volesse morire su quella immensa cupola verde. Era sorta la luna, grande e luminosa, ma fredda e remota fra la trama fitta delle fronde. La foresta si rinserrò, gli uccelli già dormivano nei loro nidi di frasche, daini e caprioli sognavano i pascoli verdi nel fondo dei loro covili tra le foglie. Sulla foresta, il plenilunio aveva riverberi magici, alberi e luce avevano ripreso il loro eterno colloquio notturno, in un linguaggio che noi non comprendiamo più.

Francesco Rosso

Pagina 3 (02.09.1959) LaStampa – numero 208
Ripubblicato su “L’Attacco” dl 29 dicembre 2010
(testi a cura di Teresa Maria Rauzino, foto a cura di Domenico Sergio Antonacci)

Via: Teresa Maria Rauzino su Facebook

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