Tutti gli abitanti di Vieste di una certa età ricordano i racconti “spaventosi” delle loro madri: non andare vicino al Pizzomunno, ci sta lo spirito, il fantasma che ti tira negli abissi del mare…
“La suicida del Gargano”, 1836 |
Una volta viveva a Vieste una fanciulla come non se n’erano vedute mai; la sua bellezza superava il sole ed era come l’occhio del signore; le sirene ne vennero in gelosia, e un giorno in cui ella andava sola attendendo il suo amico, la rapirono.
Ora vive in fondo al mare incatenata agli scogli. Il suo amico la piange eternamente e la sospira e lì attende sulla spiaggia. Una volta ogni cento anni le sirene si commuovono e gli amanti possono avere un giorno di amore, ma verso sera, allorché illusi della loro libertà, fanno per andarsene, le sirene tirano le catene alle quali la fanciulla è avvinta ed ella ripiomba nel mare e per altri cento anni il pianto dell’amato, simile al gemere delle onde, corre la tempesta e il sereno.
Questa è la leggenda di Vieste riportata integralmente dal Beltramelli ne “Il Gargano” pubblicato nel 1907, non si rintracciano versioni antecedenti a questa data, quindi possiamo affermare che senza dubbio il Beltramelli fu il primo a riportarla per iscritto dopo averla ascoltata, come egli stesso afferma, da un racconto di un pescatore locale. Successivamente fu la scrittrice americana Katharine Hooker a fornire una replica della leggenda in “attraverso il tallone d’Italia” del 1927. Mimmo Aliota ne “Il mio paese” riporta integralmente la leggenda trovata su una rivista scolastica del 1950, dove la trama è identica alle versioni precedenti, ma l’autore a firma D.O., la apprende da un antiquario di Milano.
Molti secoli fa al tempo delle persecuzioni Cristiane, viveva a Vieste un patrizio di nome Mummo: uomo terribilmente crudele e malvagio che catturava i seguaci di Cristo e li mandava a Roma… Mummo aveva una figlia bellissima, la quale al contrario del padre era di animo molto buono e appunto per questo non erano in pochi a sospettarla dei Cristiani, fanatici straccioni che andavano a morte col nome di Cristo sulle labbra perché incapaci di reagire ai loro persecutori . Una notte… uno schiavo riferì a Mummo che sulla spiaggia ora chiamata – del castello – vi era un raduno di Cristiani e fra questi la figlia. Alla sconcertante rivelazione, Mummo fu preso dal furore e ordinò …che si andasse a catturarli e seguito dai soldati giunse sulla spiaggia ove era il raduno dei Cristiani, i quali seduti su grosse pietre, intorno al fuoco, ascoltavano un vecchio che parlava con fervore della nuova fede; fra questi il feroce persecutore scorse sua figlia con accanto un giovane pescatore innamorato di lei. Come per annunziare l’imminente sventura, la brezza cessò di spirare, tacquero tutte le voci della notte e in cielo si videro volteggiare i pipistrelli. All’improvviso i soldati piombarono sui Cristiani che non si difesero, solo il giovane pescatore spinto forse dall’amore per la fanciulla, tentò di opporsi a quei bruti, ma cadde trafitto da cento lance …la fanciulla… allora invidiò la sorte dei compagni di fede e …sentiva che la vita non le interessava più, da quel momento…la sua bocca non avrebbe fatto altro che pregare Cristo perché la chiamasse a se…poi con gli occhi fuori dalle orbite, inoltrandosi in mare, chiamava disperatamente il suo pescatore…intanto l’acqua le copriva le spalle…Ma ecco che il cielo tuonò e una tempesta si scatenò all’improvviso…i cavalloni trascinarono la sventurata verso gli scogli…e si tinse di rosso la schiuma del mare…Mummo urlò: Dio dei Cristiani, dov’è la tua giustizia…se hai fatto morire mia figlia che credeva al tuo trono…tu sei il più ingiusto degli dei, che Plutone possa imprigionarti nell’averno! In quel momento…un fulmine…sfiorò Mummo pietrificandolo…il giorno dopo, i contadini Viestani passando per la spiaggia videro due morti vicini, notarono anche la strana roccia…e intuirono la tragedia. D’allora chiamarono quella roccia “Pizzo Mummo”…simbolo di quella giustizia di cui noi uomini siamo soliti dubitare.
Un antica leggenda quindi, precedente a quella che oggi ci tramandiamo, antica di duemila anni se vogliamo far fede al suo periodo storico e sopravvissuta fino agli anni ’50; averla ritrovata conforta i miei ricordi di bambina, di quando la Nonna mi raccontò di quel feroce Mummo e d’allora il maestoso monolite sulla spiaggia del Castello mi incuteva timore, come un padre severo. Riassumendo, abbiamo da una parte la leggenda del Pizzo Mummo, un articolo di un giornale locale, il racconto di mia nonna; e dall’altra la leggenda di un mare con sirene feroci contro due amanti che si incontrano ogni cent’anni, raccontata da un bergamasco, un’americana e un antiquario di Milano e nel bel mezzo gli anni ’50 e il boom turistico: crocevia di forestieri e ambizione Viestana alla modernità. La somma delle parti ha creato la leggenda di Pizzomunno amante di Cristalda, la fanciulla di Vieste, ma forse veniva dal mare perché il suo nome è completamente estraneo alla nostra tradizione o più probabilmente era Cristiana e nei vari passaggi orali è diventata Cristalda e le cento lance sono diventate cent’anni ; oppure possiamo avanzare un ipotesi ancora più azzardata, che qualcuno abbia fatto confusione con la leggenda salentina di Leuca, feroce sirena , colpevole della pietrificazione di due amanti. A noi conviene fare come il Melillo e lasciare le cose come stanno poiché pur scegliendo il lieto fine che più ci aggrada , il Pizzomunno resterà per sempre immobile sulla spiaggia del Castello ad ascoltare dall’alto le sue mille leggende .
Nella seconda parte di questo post vedremo come la leggenda ben si prestava, già a metà secolo scorso, a narrazioni più complesse ed ecco che Giuseppe D’Addetta (Novelle e leggende della Capitanata), fervente garganico e tra i primi veri “divulgatori” del nostro territorio, ne riporta una versione (qui i protagonisti originali si chiamano Pizzimunno e Vesta).
Mormorava solo l’acqua che la prora spartiva, e la grande vela arancione della paranza qualche volta batteva sgonfia per il cessare della brezza.
Tacevamo, stretti seduti a prua, sognando la luna bianca nella notte nera, mentre ascoltavamo i battiti dei cuori vicini che si sentono quando intorno è quiete e nell’animo garrisce la giovinezza.
A poppa, il marinaio di mezza età che governava la barca s’indovinava dal chiarore che arrossava l’apice della pipa ad ogni boccata di fumo, Neanche lui parlava; taceva con noi e con la notte.
La mia compagna mi si strinse di più.
– Hai paura?
– No; ma vorrei scendere a riva, guardare da terra questo buio misterioso che pesa sull’acqua, temerlo ancora di più e poi provare più forte la sensazione di andare incontro all’ignoto quando riprenderemo il mare.
La vela fu spostata e docile la paranza, dopo qualche minuto, si arenò con la chiglia.
La riva era ciottolosa; un taglio quasi perpendicolare mostrava appena nell’oscurità il candore della costa alta, da dove s’affacciavano le chiome dei pini che s’intravedevano soltanto come schermi forati dalla lucentezza delle stelle.
Camminammo un po’; la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi, con uno stridio che nella notte s’incupiva. Poi ad un tratto ci si parò davanti come un enorme fantasma bianco, una roccia alta, conica. alla cui base mormoravano le ondine in una carezza lieve che cessava e riprendeva, c schiumava appena nell’infrangersi ai piedi del faraglione.
Lontano, su Vieste, un chiarore rossastro interrompeva il buio che avvolgeva terra e mare.
Tornammo.
Il barcaiolo cl attendeva sulla riva, con le mani congiunte sul dorso e la pipa spenta fra le labbra Ed a lui chiedemmo cos’era quella roccia alta che nella notte ci era apparsa come un enorme fantasma bianco, immobile vedetta a guardia sul mare. Scorgemmo appena l’incresparsi delle guance in un breve sorriso. mentre il marinaio tentennava la testa dall’indietro in avanti quasi ad esternare un grave pensiero che in quel momento gli serrava il cervello
Poi disse: È una storia lunga e dolorosa e potrebbe anche sembrare una favola se qualche vecchio pescatore non assicurasse che. quanto si narra, è vero perché se ne è accertato personalmente. Andiamo a sederci sulla barca e ve la racconterò.
L’acqua ci sembrò più fredda quando.abbordammo la paranza. coccolata dalle piccole onde. La vela era ammainata; l’albero si sperdeva nel buio Dalla poppa cominciò a giungere u pruu, la voce cupa del barcaiolo, che nel silenzio assumeva alle volte tonalità strane, quasi uscisse dal fondo del mare. E la voce strana diceva.
Qui siamo sul limite estremo del Promontorio, dove la terra maggiormente s’insinua nel mare Quel faraglione si chiama Pizzimunno ed è davvero un fantasma come a voi è sembrato, anche se di pietra.
La piccola rada di Vieste – voi lo avete visto – è sbarrata da uno scoglio lungo e basso, battuto ora dalle sciabolate luminose del faro.
Vieste è un’antica cittadina che – dicono – fu fondata da Noè su questa piccola rada, dopo il diluvio universale. E non v’era ancora a rimirarsi nel mare, al tempo in cui avvenne la storia che vi narro. Al suo posto, poche capanne si sperdevano fra i pini.
In una di quelle capanne, aggrappate al dorso del colle da dove le mura nere dello sbrindellato castello guardano ora il mare, viveva la più bella fanciulla di tutto il Gargano. Era più bella del sole quando sorride all’aurora, della rosa quando schiude all’alba la sua prima corolla. Dicono che si chiamasse Vesta e che di lei anche i fiori fossero innamorati tanto grande era la sua bellezza. E quando Vesta passava, si aprivano tutti per profumarle l’aria che respirava.
Vicino alla riva, in un’altra piccola capanna che le onde bagnavano durante l’alta marea e davanti alla quale s’arenava la barca nei giorni di burrasca, abitava Pizzimunno, un pescatore dalle membra perfette e vigorose, tutto il giorno in mare. E quando l’acqua era trasparente. Pizzimunno scorgeva sul fondo visi bellissimi di donne, mentre canti maliosi cominciavano a serpeggiare nell’aria. Poi. come quei visi s’innalzavano fino al pelo delle onde, il canto s’irrobustiva e la melodia s’avvicinava. E durava a lungo. conturbante, mentre dal mare uscivano a mezzo busto bellissime ragazze bionde e brune che sorridevano al pescatore tutt’intorno alla sua barca. Di tanto in tanto cessava il canto e voci carezzevoli invitavano Pizzimunno a scendere negli abissi del moro dove l’attendeva un regno fiabesco e tutto il loro amore. Sarebbe stato il loro signore, le avrebbe prese tutte o soltanto quelle che desiderava e quando le volesse. Felici anche le altre di poterlo guardare soltanto, di una sua carezza, di una sua parola. E gli avrebbero donato la loro stessa immortalità, con il loro amore eterno.
Ma Pizzimunno amava Vesta ed alle sirene rispondeva che la sua amante era sempre la più bella e nessuna di loro reggeva al suo confronto E una carezza di Vesta valeva tutta l’eternità che esse volevano donargli.
E quando a sera ritornava nella rada, Vesta l’attendeva sulla spiaggia per salire sulla sua barca ed andare insieme sullo scoglio piatto che chiude la cala, soli con il loro amore a cui il mare cantava la sua canzone senza fine.
Illividivano le sirene quando. nelle notti di luna, scorgevano sullo scoglio gli amanti. E nei giorni successivi, più dolci erano le loro voci ed i loro canti, più promettenti i loro sguardi, più tentatori i loro sorrisi nell’ansia di conquistare il bel pescatore. Il quale un giorno disse loro:
– No, sirene, io amo il mare, i vostri canti che ripetono le onde quando voi non ci siete, tutto l’oro del sole fra il turchino che circonda la mia solitudine. Ma amo di più Vesta che nel suo corpo incatena il sole, che ha negli occhi il glauco delle onde, e tutte le vostre bellezze nella sua. Siatemi sorelle nella sconfinata solitudine marina ma amanti no perché solo Vesta io amo.
Allora le sirene lo minacciarono. Ed egli rise perché non cosi, con le minacce, sarebbe finito il suo amore per Vesta; né il suo cuore lo avrebbero mai avuto loro E Vesta lo avrebbe amato sempre, anche fantasma, oltre la vita.
Le sirene allora si consultarono. Non potevano sopportare che un misero e mortale pescatore si ridesse di loro, ed una fanciulla terrena le vincesse in amore; vincesse loro, le ammaliatrici a cui nessuno aveva mai resistito
E dal consiglio di tanta gelosia. venne fuori una sentenza terribilmente crudele che nell’eternità avrebbe fatto soffrire i due amanti.
Tacque per un momento il marinaio
Nella notte scura spirava appena un alito di vento. La barca era immota sull’acqua; il mistero aveva ansie e palpiti sospesi.
– Vesta, solo tu sei tutta la mia vita, sussurrò una notte sul io scoglio Pizzimunno. a conclusione dell’ultimo racconto delle lusinghe delle sirene e delle loro minacce.
– Pizzimunno, ho paura. Sento che qualche cosa di molto grave pesa sul nostro destino.
La voce di Vesta era flebile, accorata.
La luna guardava, alta nel cielo; la terra e il mare sorridevano al suo argento senza calore. Sullo scoglio solitario si ripercuoteva il fremito delle onde.
Ad un tratto un canto dolce s’intese e pareva lontano.
Pizzimunno rise credendo ad un altro tentativo delle sirene in presenza della sua amante. Vesta si rifugiò nelle sue braccia; tremava.
S’avvicinava sempre più il canto.
Non da lontano ma dalle onde ora sgorgava e saliva su dal fondo, lento ma sempre più vicino. E quando fu da presso, divenne più dolce ed intenerì gli amanti che immobili ascoltavano, con gli occhi fissi sul mare.
E non si accorsero che delle sirene erano alle spalle di Vesta.
Ad un tratto la fanciulla fu stretta da catene ed uno strappo forte la fece cadere In acqua mentre il giovano, come pietrificato, guardava il gorgo che brevemente ribolli sulla testa dell’amata. Poi si riscosse e si tuffò quasi a raggiungere il fondo.
Sghignazzava ora il canto lontanando e Pizzimunno lo seguiva a nuoto nella speranza di raggiungere Vesta.
Poi si sentì sfinito ed ogni movimento gli fu impossibile.
L’alba che segui vide sulla riva quella roccia alta e bianca che a voi è sembrata un fantasma. Da quella notte Pizzimunno non è più apparso nella rada.
Vesta fu trascinata lontano, negli abissi marini. E i suoi occhi lucenti di pianto, videro un regno fiabesco, antri splendenti che si susseguivano all’infinito con volte frastagliate di madreperla, dei quali un mare turchino e trasparente formava il pavimento. E da quel pavimento le sirene uscivano a mezzo busto, bellissime nel volto e con negli occhi un odio terrificante. E beffavano Vesta, la bella del mondo, e la invitavano ad invocare il suo Pizzimunno perché venisse a riprenderla.
Poi Vesta senti che i piedi le diventavano di ghiaccio E il ghiaccio salì pian piano su fino al capo; ed al posto di quella fanciulla bella come il sole, la più bella che mai abbia visto il Promontorio, si formò una stele di corallo rosa intorno alla quale le sirene sarabandarono.
Si fermò ancora il marinaio nel suo dire.
La mia compagna emise un profondo sospiro come a liberare il cuore da un incubo; e con le mani strinse forte il mio braccio perché temeva le sirene in quel buio che il racconto del barcaiuolo rendeva più misterioso.
E il marinaio riprese:
Nessuno sa con precisione dove sia il regno fiabesco delle sirene negli abissi del mare. Tutti però dicono che si trova fra le Tremiti e la costa garganica. E la stele di corallo rosa in cui Vesta è trasformata, dal suo apice goccia sempre lacrime mentre una catena di cento maglie la tiene assicurata ad una grande colonna che sorregge la volta. Le lacrime cadono come perle fosforescenti sull’acqua azzurra che circonda la stele rosa e si ammucchiano alla sua base cerne a formare il piedistallo Ma se una sirena le tocca, si liquefanno e tornano stille di acqua nell’acqua
Ed anche la stele di corallo ridiventa Vesta e il faraglione ridiventa Pizzimunno se una sirena li accarezza. E non vi è pianto più accorato di quello dei due amanti quando riprendono spoglie umane.
Da questo pianto le perfide sirene sono state impietosite ed hanno deciso di far rivedere gli amanti ogni cento anni, su quello stesso scoglio dove vissero l’ultima notte d’amore. Ma è pietà la loro o una più grande perfidia se l’attesa di un secolo non è che un tormento senza fine per le anime di quei corpi irrigiditi? Perché neanche le anime possono ricongiungersi avendole, l’incantesimo, per l’eternità legate alla materia.
Così ogni cento anni Vesta e Pizzimunno si ritrovano sullo scoglio piatto che chiude la rada ed è folle la loro gioia in quella notte che trascorrono insieme
Ma nessuno riesce a fuggire verso la terra dove le sirene non potrebbero raggiungerli. La catena dalle cento maglie si tende e il mare inghiotte di nuovo Vesta mentre Pizzimunno guarda ancora come inebetito il gorgo che ribolle Poi comincia a nuotare seguendo il canto delle sirene e si rinnova l’incanto sulla riva che ci è vicina; lì si riforma il faraglione, gigantesco fantasma di pietra bianca
E che questo accada, lo hanno assicurato vecchi pescatori i quali inutilmente in una notte hanno cercato il faraglione senza trovarlo. Eppure conoscono la riva palmo a palmo.
Ma nessuno riesce a ricordare la data in cui l’incantesimo di Pizzimunno s’interrompe. Si sa solo che la notte è buia, con poche stelle, nella calma più assoluta del mare.
– Potrebbe anche essere questa notte, disse la mia compagna.
– Si potrebbe essere, rispose il pescatore
E con un remo spinse sul fondo per disincagliare la paranza dalla sabbia fine in cui la chiglia si era arenata.
Max Gazzè
La leggenda di Cristalda e Pizzomunno
di F. Gazzè – F. De Benedittis – M. Gazzè
Ed. Linea Due/Universal Music Italia/Sotto Casa/OTR Live – Milano – Roma