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Significato e origini della canzone di Max Gazzè “La leggenda di Cristalda e Pizzomunno”

Tutti gli abitanti di Vieste di una certa età ricordano i racconti “spaventosi” delle loro madri: non andare vicino al Pizzomunno, ci sta lo spirito, il fantasma che ti tira negli abissi del mare…

Approfondiamo questa storia, una leggenda dalle mille sfaccettature (e versioni) che ha ispirato l’artista Max Gazzè per la canzone con la quale ha partecipato a Sanremo 2018.

 
Contributi di Michela Papagni e Domenico Sergio Antonacci

“La suicida del Gargano”, 1836

Una volta viveva a Vieste una fanciulla come non se n’erano vedute mai; la sua bellezza superava il sole ed era come l’occhio del signore; le sirene ne vennero in gelosia, e un giorno in cui ella andava sola attendendo il suo amico, la rapirono.
Ora vive in fondo al mare incatenata agli scogli. Il suo amico la piange eternamente e la sospira e lì attende sulla spiaggia. Una volta ogni cento anni le sirene si commuovono e gli amanti possono avere un giorno di amore, ma verso sera, allorché illusi della loro libertà, fanno per andarsene, le sirene tirano le catene alle quali la fanciulla è avvinta ed ella ripiomba nel mare e per altri cento anni il pianto dell’amato, simile al gemere delle onde, corre la tempesta e il sereno.


In Italia sono numerosi i geositi del tipo “faraglioni”: dalle Tremiti, a Capri, a Ponza, alle Eolie. Pochi di essi presentano la valenza paesaggistica e la fruibilità del faraglione Pizzomunno in comune di Vieste, provincia di Foggia. Infatti il territorio comunale vanta oltre 1.500.000
di presenze turistiche all’anno ed il faraglione, ubicato sul lungomare adiacente all’abitato, presenta la massima visibilità.

Questa è la leggenda di Vieste riportata integralmente dal Beltramelli ne “Il Gargano” pubblicato nel 1907, non si rintracciano versioni antecedenti a questa data, quindi possiamo affermare che senza dubbio il Beltramelli fu il primo a riportarla per iscritto dopo averla ascoltata, come egli stesso afferma, da un racconto di un pescatore locale. Successivamente fu la scrittrice americana Katharine Hooker a fornire una replica della leggenda in “attraverso il tallone d’Italia” del 1927. Mimmo Aliota ne “Il mio paese” riporta integralmente la leggenda trovata su una rivista scolastica del 1950, dove la trama è identica alle versioni precedenti, ma l’autore a firma D.O., la apprende da un antiquario di Milano.
In tutte queste versioni i due amanti non hanno nome, non c’è un Pizzomunno e nemmeno una Cristalda, anzi non esiste assolutamente nessun riferimento al monolite del Pizzomunno!
Curioso è anche che il Melillo, nella sua encomiabile ricerca del 1925 per conto dell’Atlante linguistico italiano su “come vivono e come parlano sul Gargano”, interrogando i locali sul origine del nome del Pizzomunno, non abbia riferito alcuna leggenda e anzi ci fornisce un interessante analisi sull’ etimologia del nome dato al monolite: “La cittadina, qualcosa di veramente molto bello, è sistemata sulla Testa del Gargano, come in capo al mondo, Il che potrebbe indurre a vedere segnato dal faraglione che è detto di pízzo múmme un FINIS MUNDI , e quindi si potrebbe essere tentati a correggere la toponomastica tradizionale accertata sulla bocca di tutti i viestani con un indicativo pízze múnne, in cui la voce múnne dovrebbe derivare da un anteriore múnde. Un’interpretazione seducente, che ho personalmente carezzato per un po’ di tempo, ma che ora respingerei, perché lasciando le cose come stanno (cioè continuando a dire pízzo múmme e non pízze múnne), vedo rispettata la tradizione linguistica viestana.” Come riferito dal Mellillo, in effetti nelle cartoline di stampa Viestana, fino agli anni 50 compare il nome “Pizzimummo” e quindi non sarebbe affatto la punta del mondo ma piuttosto e chiaramente : Il pezzo di Mummo , deduzione del tutto ipotetica quest’ultima se non fosse per un riscontro in un articolo de “Il faro di Vieste” del 31 Gennaio 1954 dove Pasquale Ridolfi riporta “ la leggenda del Pizzo Mummo” definendola appropriatamente una leggenda che il tempo ha cancellato dai ricordi dell’uomo:

Molti secoli fa al tempo delle persecuzioni Cristiane, viveva a Vieste un patrizio di nome Mummo: uomo terribilmente crudele e malvagio che catturava i seguaci di Cristo e li mandava a Roma… Mummo aveva una figlia bellissima, la quale al contrario del padre era di animo molto buono e appunto per questo non erano in pochi a sospettarla dei Cristiani, fanatici straccioni che andavano a morte col nome di Cristo sulle labbra perché incapaci di reagire ai loro persecutori . Una notte… uno schiavo riferì a Mummo che sulla spiaggia ora chiamata – del castello – vi era un raduno di Cristiani e fra questi la figlia. Alla sconcertante rivelazione, Mummo fu preso dal furore e ordinò …che si andasse a catturarli e seguito dai soldati giunse sulla spiaggia ove era il raduno dei Cristiani, i quali seduti su grosse pietre, intorno al fuoco, ascoltavano un vecchio che parlava con fervore della nuova fede; fra questi il feroce persecutore scorse sua figlia con accanto un giovane pescatore innamorato di lei. Come per annunziare l’imminente sventura, la brezza cessò di spirare, tacquero tutte le voci della notte e in cielo si videro volteggiare i pipistrelli. All’improvviso i soldati piombarono sui Cristiani che non si difesero, solo il giovane pescatore spinto forse dall’amore per la fanciulla, tentò di opporsi a quei bruti, ma cadde trafitto da cento lance …la fanciulla… allora invidiò la sorte dei compagni di fede e …sentiva che la vita non le interessava più, da quel momento…la sua bocca non avrebbe fatto altro che pregare Cristo perché la chiamasse a se…poi con gli occhi fuori dalle orbite, inoltrandosi in mare, chiamava disperatamente il suo pescatore…intanto l’acqua le copriva le spalle…Ma ecco che il cielo tuonò e una tempesta si scatenò all’improvviso…i cavalloni trascinarono la sventurata verso gli scogli…e si tinse di rosso la schiuma del mare…Mummo urlò: Dio dei Cristiani, dov’è la tua giustizia…se hai fatto morire mia figlia che credeva al tuo trono…tu sei il più ingiusto degli dei, che Plutone possa imprigionarti nell’averno! In quel momento…un fulmine…sfiorò Mummo pietrificandolo…il giorno dopo, i contadini Viestani passando per la spiaggia videro due morti vicini, notarono anche la strana roccia…e intuirono la tragedia. D’allora chiamarono quella roccia “Pizzo Mummo”…simbolo di quella giustizia di cui noi uomini siamo soliti dubitare.

Un antica leggenda quindi, precedente a quella che oggi ci tramandiamo, antica di duemila anni se vogliamo far fede al suo periodo storico e sopravvissuta fino agli anni ’50; averla ritrovata conforta i miei ricordi di bambina, di quando la Nonna mi raccontò di quel feroce Mummo e d’allora il maestoso monolite sulla spiaggia del Castello mi incuteva timore, come un padre severo. Riassumendo, abbiamo da una parte la leggenda del Pizzo Mummo, un articolo di un giornale locale, il racconto di mia nonna; e dall’altra la leggenda di un mare con sirene feroci contro due amanti che si incontrano ogni cent’anni, raccontata da un bergamasco, un’americana e un antiquario di Milano e nel bel mezzo gli anni ’50 e il boom turistico: crocevia di forestieri e ambizione Viestana alla modernità. La somma delle parti ha creato la leggenda di Pizzomunno amante di Cristalda, la fanciulla di Vieste, ma forse veniva dal mare perché il suo nome è completamente estraneo alla nostra tradizione o più probabilmente era Cristiana e nei vari passaggi orali è diventata Cristalda e le cento lance sono diventate cent’anni ; oppure possiamo avanzare un ipotesi ancora più azzardata, che qualcuno abbia fatto confusione con la leggenda salentina di Leuca, feroce sirena , colpevole della pietrificazione di due amanti. A noi conviene fare come il Melillo e lasciare le cose come stanno poiché pur scegliendo il lieto fine che più ci aggrada , il Pizzomunno resterà per sempre immobile sulla spiaggia del Castello ad ascoltare dall’alto le sue mille leggende .

Nella seconda parte di questo post vedremo come la leggenda ben si prestava, già a metà secolo scorso, a narrazioni più complesse ed ecco che Giuseppe D’Addetta (Novelle e leggende della Capitanata), fervente garganico e tra i primi veri “divulgatori” del nostro territorio, ne riporta una versione (qui i protagonisti originali si chiamano Pizzimunno e Vesta).

Ogni cent’anni
Era buio sul mare, quella notte ormai lontana. Ed era tutto silenzio e mistero.
Mormorava solo l’acqua che la prora spartiva, e la grande vela arancione della paranza qualche volta batteva sgonfia per il cessare della brezza.
Tacevamo, stretti seduti a prua, sognando la luna bianca nella notte nera, mentre ascoltavamo i battiti dei cuori vicini che si sentono quando intorno è quiete e nell’animo garrisce la giovinezza.
A poppa, il marinaio di mezza età che governava la barca s’indovinava dal chiarore che arrossava l’apice della pipa ad ogni boccata di fumo, Neanche lui parlava; taceva con noi e con la notte.
La mia compagna mi si strinse di più.
– Hai paura?
– No; ma vorrei scendere a riva, guardare da terra questo buio misterioso che pesa sull’acqua, temerlo ancora di più e poi provare più forte la sensazione di andare incontro all’ignoto quando riprenderemo il mare.
La vela fu spostata e docile la paranza, dopo qualche minuto, si arenò con la chiglia.
La riva era ciottolosa; un taglio quasi perpendicolare mostrava appena nell’oscurità il candore della costa alta, da dove s’affacciavano le chiome dei pini che s’intravedevano soltanto come schermi forati dalla lucentezza delle stelle.
Camminammo un po’; la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi, con uno stridio che nella notte s’incupiva. Poi ad un tratto ci si parò davanti come un enorme fantasma bianco, una roccia alta, conica. alla cui base mormoravano le ondine in una carezza lieve che cessava e riprendeva, c schiumava appena nell’infrangersi ai piedi del faraglione.

Lontano, su Vieste, un chiarore rossastro interrompeva il buio che avvolgeva terra e mare.
Tornammo.
Il barcaiolo cl attendeva sulla riva, con le mani congiunte sul dorso e la pipa spenta fra le labbra Ed a lui chiedemmo cos’era quella roccia alta che nella notte ci era apparsa come un enorme fantasma bianco, immobile vedetta a guardia sul mare. Scorgemmo appena l’incresparsi delle guance in un breve sorriso. mentre il marinaio tentennava la testa dall’indietro in avanti quasi ad esternare un grave pensiero che in quel momento gli serrava il cervello
Poi disse: È una storia lunga e dolorosa e potrebbe anche sembrare una favola se qualche vecchio pescatore non assicurasse che. quanto si narra, è vero perché se ne è accertato personalmente. Andiamo a sederci sulla barca e ve la racconterò.
L’acqua ci sembrò più fredda quando.abbordammo la paranza. coccolata dalle piccole onde. La vela era ammainata; l’albero si sperdeva nel buio Dalla poppa cominciò a giungere u pruu, la voce cupa del barcaiolo, che nel silenzio assumeva alle volte tonalità strane, quasi uscisse dal fondo del mare. E la voce strana diceva.


Qui siamo sul limite estremo del Promontorio, dove la terra maggiormente s’insinua nel mare Quel faraglione si chiama Pizzimunno ed è davvero un fantasma come a voi è sembrato, anche se di pietra.
La piccola rada di Vieste – voi lo avete visto – è sbarrata da uno scoglio lungo e basso, battuto ora dalle sciabolate luminose del faro.
Vieste è un’antica cittadina che – dicono – fu fondata da Noè su questa piccola rada, dopo il diluvio universale. E non v’era ancora a rimirarsi nel mare, al tempo in cui avvenne la storia che vi narro. Al suo posto, poche capanne si sperdevano fra i pini.
In una di quelle capanne, aggrappate al dorso del colle da dove le mura nere dello sbrindellato castello guardano ora il mare, viveva la più bella fanciulla di tutto il Gargano. Era più bella del sole quando sorride all’aurora, della rosa quando schiude all’alba la sua prima corolla. Dicono che si chiamasse Vesta e che di lei anche i fiori fossero innamorati tanto grande era la sua bellezza. E quando Vesta passava, si aprivano tutti per profumarle l’aria che respirava.
Vicino alla riva, in un’altra piccola capanna che le onde bagnavano durante l’alta marea e davanti alla quale s’arenava la barca nei giorni di burrasca, abitava Pizzimunno, un pescatore dalle membra perfette e vigorose, tutto il giorno in mare. E quando l’acqua era trasparente. Pizzimunno scorgeva sul fondo visi bellissimi di donne, mentre canti maliosi cominciavano a serpeggiare nell’aria. Poi. come quei visi s’innalzavano fino al pelo delle onde, il canto s’irrobustiva e la melodia s’avvicinava. E durava a lungo. conturbante, mentre dal mare uscivano a mezzo busto bellissime ragazze bionde e brune che sorridevano al pescatore tutt’intorno alla sua barca. Di tanto in tanto cessava il canto e voci carezzevoli invitavano Pizzimunno a scendere negli abissi del moro dove l’attendeva un regno fiabesco e tutto il loro amore. Sarebbe stato il loro signore, le avrebbe prese tutte o soltanto quelle che desiderava e quando le volesse. Felici anche le altre di poterlo guardare soltanto, di una sua carezza, di una sua parola. E gli avrebbero donato la loro stessa immortalità, con il loro amore eterno.
Ma Pizzimunno amava Vesta ed alle sirene rispondeva che la sua amante era sempre la più bella e nessuna di loro reggeva al suo confronto E una carezza di Vesta valeva tutta l’eternità che esse volevano donargli.
E quando a sera ritornava nella rada, Vesta l’attendeva sulla spiaggia per salire sulla sua barca ed andare insieme sullo scoglio piatto che chiude la cala, soli con il loro amore a cui il mare cantava la sua canzone senza fine.
Illividivano le sirene quando. nelle notti di luna, scorgevano sullo scoglio gli amanti. E nei giorni successivi, più dolci erano le loro voci ed i loro canti, più promettenti i loro sguardi, più tentatori i loro sorrisi nell’ansia di conquistare il bel pescatore. Il quale un giorno disse loro:
– No, sirene, io amo il mare, i vostri canti che ripetono le onde quando voi non ci siete, tutto l’oro del sole fra il turchino che circonda la mia solitudine. Ma amo di più Vesta che nel suo corpo incatena il sole, che ha negli occhi il glauco delle onde, e tutte le vostre bellezze nella sua. Siatemi sorelle nella sconfinata solitudine marina ma amanti no perché solo Vesta io amo.
Allora le sirene lo minacciarono. Ed egli rise perché non cosi, con le minacce, sarebbe finito il suo amore per Vesta; né il suo cuore lo avrebbero mai avuto loro E Vesta lo avrebbe amato sempre, anche fantasma, oltre la vita.
Le sirene allora si consultarono. Non potevano sopportare che un misero e mortale pescatore si ridesse di loro, ed una fanciulla terrena le vincesse in amore; vincesse loro, le ammaliatrici a cui nessuno aveva mai resistito
E dal consiglio di tanta gelosia. venne fuori una sentenza terribilmente crudele che nell’eternità avrebbe fatto soffrire i due amanti.
Tacque per un momento il marinaio
Nella notte scura spirava appena un alito di vento. La barca era immota sull’acqua; il mistero aveva ansie e palpiti sospesi.
– Vesta, solo tu sei tutta la mia vita, sussurrò una notte sul io scoglio Pizzimunno. a conclusione dell’ultimo racconto delle lusinghe delle sirene e delle loro minacce.
– Pizzimunno, ho paura. Sento che qualche cosa di molto grave pesa sul nostro destino.
La voce di Vesta era flebile, accorata.
La luna guardava, alta nel cielo; la terra e il mare sorridevano al suo argento senza calore. Sullo scoglio solitario si ripercuoteva il fremito delle onde.
Ad un tratto un canto dolce s’intese e pareva lontano.
Pizzimunno rise credendo ad un altro tentativo delle sirene in presenza della sua amante. Vesta si rifugiò nelle sue braccia; tremava.
S’avvicinava sempre più il canto.
Non da lontano ma dalle onde ora sgorgava e saliva su dal fondo, lento ma sempre più vicino. E quando fu da presso, divenne più dolce ed intenerì gli amanti che immobili ascoltavano, con gli occhi fissi sul mare.
E non si accorsero che delle sirene erano alle spalle di Vesta.
Ad un tratto la fanciulla fu stretta da catene ed uno strappo forte la fece cadere In acqua mentre il giovano, come pietrificato, guardava il gorgo che brevemente ribolli sulla testa dell’amata. Poi si riscosse e si tuffò quasi a raggiungere il fondo.
Sghignazzava ora il canto lontanando e Pizzimunno lo seguiva a nuoto nella speranza di raggiungere Vesta.
Poi si sentì sfinito ed ogni movimento gli fu impossibile.
L’alba che segui vide sulla riva quella roccia alta e bianca che a voi è sembrata un fantasma. Da quella notte Pizzimunno non è più apparso nella rada.
Vesta fu trascinata lontano, negli abissi marini. E i suoi occhi lucenti di pianto, videro un regno fiabesco, antri splendenti che si susseguivano all’infinito con volte frastagliate di madreperla, dei quali un mare turchino e trasparente formava il pavimento. E da quel pavimento le sirene uscivano a mezzo busto, bellissime nel volto e con negli occhi un odio terrificante. E beffavano Vesta, la bella del mondo, e la invitavano ad invocare il suo Pizzimunno perché venisse a riprenderla.
Poi Vesta senti che i piedi le diventavano di ghiaccio E il ghiaccio salì pian piano su fino al capo; ed al posto di quella fanciulla bella come il sole, la più bella che mai abbia visto il Promontorio, si formò una stele di corallo rosa intorno alla quale le sirene sarabandarono.
Si fermò ancora il marinaio nel suo dire.
La mia compagna emise un profondo sospiro come a liberare il cuore da un incubo; e con le mani strinse forte il mio braccio perché temeva le sirene in quel buio che il racconto del barcaiuolo rendeva più misterioso.
E il marinaio riprese:
Nessuno sa con precisione dove sia il regno fiabesco delle sirene negli abissi del mare. Tutti però dicono che si trova fra le Tremiti e la costa garganica. E la stele di corallo rosa in cui Vesta è trasformata, dal suo apice goccia sempre lacrime mentre una catena di cento maglie la tiene assicurata ad una grande colonna che sorregge la volta. Le lacrime cadono come perle fosforescenti sull’acqua azzurra che circonda la stele rosa e si ammucchiano alla sua base cerne a formare il piedistallo Ma se una sirena le tocca, si liquefanno e tornano stille di acqua nell’acqua
Ed anche la stele di corallo ridiventa Vesta e il faraglione ridiventa Pizzimunno se una sirena li accarezza. E non vi è pianto più accorato di quello dei due amanti quando riprendono spoglie umane.
Da questo pianto le perfide sirene sono state impietosite ed hanno deciso di far rivedere gli amanti ogni cento anni, su quello stesso scoglio dove vissero l’ultima notte d’amore. Ma è pietà la loro o una più grande perfidia se l’attesa di un secolo non è che un tormento senza fine per le anime di quei corpi irrigiditi? Perché neanche le anime possono ricongiungersi avendole, l’incantesimo, per l’eternità legate alla materia.
Così ogni cento anni Vesta e Pizzimunno si ritrovano sullo scoglio piatto che chiude la rada ed è folle la loro gioia in quella notte che trascorrono insieme
Ma nessuno riesce a fuggire verso la terra dove le sirene non potrebbero raggiungerli. La catena dalle cento maglie si tende e il mare inghiotte di nuovo Vesta mentre Pizzimunno guarda ancora come inebetito il gorgo che ribolle Poi comincia a nuotare seguendo il canto delle sirene e si rinnova l’incanto sulla riva che ci è vicina; lì si riforma il faraglione, gigantesco fantasma di pietra bianca
E che questo accada, lo hanno assicurato vecchi pescatori i quali inutilmente in una notte hanno cercato il faraglione senza trovarlo. Eppure conoscono la riva palmo a palmo.
Ma nessuno riesce a ricordare la data in cui l’incantesimo di Pizzimunno s’interrompe. Si sa solo che la notte è buia, con poche stelle, nella calma più assoluta del mare.
– Potrebbe anche essere questa notte, disse la mia compagna.
– Si potrebbe essere, rispose il pescatore
E con un remo spinse sul fondo per disincagliare la paranza dalla sabbia fine in cui la chiglia si era arenata.
In realtà un’altra leggenda simile animava i racconti dei viestani, “La suicida del Gargano”, scritta per la prima volta nel 1836 da Antonio Fazzini sulla rivista “Poliorama pittoresco” con i disegni di Filippo Molino.
Si tratta del racconto di un nocchiero salpato dal porto di Manfredonia e in viaggio verso la sua amata città natale, Vieste.
Antonio Fazzini, nipote di Lorenzo Fazzini udiva il timoniere intonare una melanconica cantilena e ascoltò il racconto della storia di una fanciulla. Angelina figlia del Barone di Vieste, orfana di madre, abitava nel Castello, era dotata di una straordinaria bellezza e di altrettanta generosità verso i meno fortunati. Conobbe un giovane di nome Arrigo, umile di origini e il padre di lei andava dicendo in paese che avrebbe preferito vedere la figlia senza vita piuttosto che sposa ad un vassallo, il Barone fiero della sua discendenza nobile la voleva maritata ad un Signore di una terra vicina.
A quei tempi Vieste soffriva ancora delle incursioni turchesche e il Comune insieme con le forze del Barone aveva costruito una piccola armata di cinque barche per contravvenire agli attacchi dal mare. Arrigo, l’amato di Angelina, comandava quelle navi, il giovane era in verità stimato tra la popolazione poiché suo nonno omonimo aveva messo in fuga il terribile Dragut, purtroppo dopo che aveva già messo a ferro e fuoco tutto il paese, e suo padre aveva perso la vita per salvare dalle galee di Dragut, una vedova e i suoi tre figli.
Un nove Maggio mentre tutto il paese festeggiava la sua adorata Madonna, la popolazione scorgeva in mare in lontananza, un imbarcazione, l’andamento della barca era sospettoso e i cittadini realizzarono che non poteva che trattarsi di navi nemiche, la gente si mise in protezione e subito fu allertato Arrigo e con le vele spiegate la sua flotta prese il mare.
Sbucarono dalle rocce di Puntarossa tre grandi navi turche e immediatamente attaccarono con i cannoni Arrigo e la sua flotta, al rombo del combattimento improvvisamente si unirono tuoni e saette e un uragano di inaudita potenza si abbatté sul mare, la incessante pioggia e l’impossibilità di poter assistere a ciò che succedeva, fece rintanare la gente nelle case, solo Angelina rimase sul tetto del Castello ad aspettare il ritorno del suo amato. Improvvisamente un fulmine cadde su di una quercia vicina al Castello, di rimbalzo colpì Angelina e preso fuoco il suo vestito, la poveretta si ustionò tutto il corpo dal braccio in giù.
I servi, udite le urla, accorsero in aiuto e la portarono nel Castello, Angelina si svegliò il giorno dopo e aveva un solo pensiero: era tornato Arrigo e la avrebbe ancora amata con il corpo ustionato? Arrigo e la sua flotta non erano tornati. Un giorno un pellegrino di ritorno dalla terra santa raccontò ai contadini che Arrigo e i suoi compagni erano stati vinti e imprigionati dai Turchi e portati in Oriente, Arrigo avrebbe rinnegato la sua fede e convertitosi, avrebbe sposato una donna araba. Angelina udita la terribile notizia non si dava pace, l’uomo che aveva amato tanto da rinnegare suo padre, tanto da perdere la sua bellezza per guardarlo dal castello, come aveva potuto dimenticarsi di lei? Troppo era la sofferenza di Angelina e la fanciulla decise di togliersi la vita gettandosi dall’alto della rupe, giù alla Ripa. Il giorno del funerale di Angelina, tornò Arrigo, udito le tristi campane, chiese ad un pescatore quale cittadino fosse passato a miglior vita e quello stravolto dalla visione del giovane, imprecò contro il suo ritardo. Arrigo si allontanò e mai più nessuno lo vide, i pescatori lamentavano una barca mancante e pensarono che il giovane avesse preso il mare, ma nelle notti tempestose spesso vedevano un ombra piangere sulla pietra che aveva costato la vita ad Angelina.
E chiudiamo questo post con la nuova canzone di Max Gazzè e il suo testo.

Max Gazzè
La leggenda di Cristalda e Pizzomunno
di F. Gazzè – F. De Benedittis – M. Gazzè
Ed. Linea Due/Universal Music Italia/Sotto Casa/OTR Live – Milano – Roma

Tu che ora
Non temi,
Ignorane
Il canto…
Quel coro ammaliante
Che irrompe alla mente
E per quanto
Mulini
Le braccia oramai
Non potrai
Far più niente.
Ma se ti rilassi
E abbandoni
Il tuo viso
A un lunghissimo
Sonno,
O mio Pizzomunno,
Tu guarda
Quell’onda
Beffarda
Che affonda
Il tuo amore indifeso.
Io ti resterò
Per la vita fedele
E se fossero
Pochi, anche altri cent’anni!
Così addolcirai gli inganni
Delle tue sirene…
Cristalda era bella
E lui da lontano
Poteva vederla
Ancora così
Con la mano
Protesa
E forse una lacrima scesa
Nel vento.
Fu solo un momento,
Poi lui sparì
Al largo
E lei in casa cantando…
Neppure il sospetto
Che intanto
Da sotto
La loro vendetta
Ed il loro lamento!
Perché poveretta
Già avevano in cuore
I muscoli tesi
Del bel pescatore,
E all’ennesimo
Suo rifiuto
Un giorno fu punito!
Ma io ti aspetterò…
Io ti aspetterò,
Fosse anche per cent’anni aspetterò…
Fosse anche per cent’anni!
E allora dal mare
Salirono insieme
Alle spiagge
Di Vieste
Malvage
Sirene…
Qualcuno le ha viste
Portare
Nel fondo
Cristalda in catene.
E quando
Le urla
Raggiunsero il cielo,
Lui impazzì davvero
Provando
A salvarla,
Perché più non c’era…
E quell’ira
Accecante
Lo fermò per sempre.
E così la gente
Lo ammira
Da allora,
Gigante
Di bianco calcare
Che aspetta tuttora
Il suo amore
Rapito
E mai più tornato!
Ma io ti aspetterò…
Fosse anche per cent’anni aspetterò…
Fosse anche per cent’anni aspetterò…
Fosse anche per cent’anni!
Io ti aspetterò
Fosse anche per cent’anni!
Si dice che adesso,
E non sia leggenda,
In un’alba
D’agosto
La bella Cristalda
Risalga
Dall’onda
A vivere ancora
Una storia
Stupenda
In Italia sono numerosi i geositi del tipo “faraglioni”: dalle Tremiti, a Capri, a Ponza, alle Eolie. Pochi di essi presentano la valenza paesaggistica e la fruibilità del faraglione Pizzomunno in comune di Vieste, provincia di Foggia. Infatti il territorio comunale vanta oltre 1.500.000
di presenze turistiche all’anno ed il faraglione, ubicato sul lungomare adiacente all’abitato, presenta la massima visibilità.



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