I cinquantaquattro chilometri che separano Lecce da Racale Vittorio Corvaglia li aveva fatti molto raramente nella sua vita. Della città pugliese non conosceva molto, ma ricordava bene la prima volta che c’era stato, una sera di febbraio del 1959, quand’era partito soldato con una valigia sgangherata, le scarpe grossolane della campagna, due giacche di rigatino blu tinto e stinto indossate l’una sull’altra e un cono di lana floscio calcato sui capelli neri, folti e ricciuti per proteggersi dal freddo. La “cartolina rosa” lo spediva al Car dell’84° Reggimento di fanteria “Venezia”, di stanza a Pistoia nella “Caserma Marini”, e il pianto inatteso e quasi isterico della sorella Ida aveva reso fatalmente cupo lo spiazzo davanti alla stazione, col vento che fischiava tra il tufo dei palazzi, la pioggia battente e i coni di luce dei fanali che disegnavano mulinelli sullo stradone che conduceva al centro.
E proprio alla stazione, tornando a casa col congedo in tasca, aveva trovato il manifesto della Federazione Carbonifera belga che gli aveva cambiato la vita. Non poteva sfuggirgli, era un pugno negli occhi: fondo lilla, caratteri neri e marcati e lo slogan pensato apposta per invitare alla lettura: “L’operaio italiano è uno dei migliori”.
Come s’aspettavano i belgi impegnati nella “battaglia del carbone”, Vittorio aveva letto fino in fondo, dapprima incuriosito, poi attento e interessato: “Operai Italiani, approfittate dei vantaggi particolari che il Belgio assicura ai suoi minatori.. Il viaggio dall’Italia è del tutto gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio si fa in ferrovia e dura solo 18 ore. Poche semplici formalità d’uso, e anche la vostra famiglia potrà poi raggiungervi in Belgio”.
A Racale Vittorio aveva amici e una ragazza, ma partendo soldato l’aveva capito: fidanzata e amici sono cose serie, ma un uomo senza lavoro è solo uno sbandato. Il manifesto era preciso e dettagliato. C’era tutto ciò che poteva servire: le condizioni di vita che sembrarono buone, il salario, che in Puglia un “caporale” non ti avrebbe mai pagato, la promessa di un alloggio dignitoso, e di un lavoro duro, ma fisso e tutelato.
Ida stavolta l’aveva salutato senza piangere. Il distacco da Vittorio soldato era stato lezione di vita. E senza piangere l’avevano lasciato alla stazione persino i genitori: meglio belga che schiavo di caporali.
Il giovane pugliese era entrato così a far parte del grande esercito dei “costruttori dell’Europa” dei popoli. Non era quella immaginata da Spinelli a Ventotene, ma questo Vittorio non poteva saperlo. Tempo dopo scoprì che stava dando una mano all’Italia, cui toccavano 2500 tonnellate di carbone al mese per ogni mille migranti che si lasciavano ingoiare dalla “mina”, ma non gli venne in mente che qualcuno l’aveva “venduto al Belgio per un sacco di carbone”, come dicevano in tanti giù in miniera, e fu contento di quell’incontro felice col manifesto lilla e la Federazione carbonifera di un paese che non conosceva, ma prometteva di regalargli un futuro che a casa non aveva.
La Federazione, in realtà, non regalava nulla, ma per molto tempo Vittorio si rifiutò di capirlo e, quando finalmente l’ammise, tra dare e avere, decise di restare; chi se ne andava via in anticipo sul contratto la somma pattuita la vedeva dal cannocchiale e, d’altra parte, in quel mangiar veleno ch’era di fatto il lavoro in miniera, qualcosa c’era che aveva un suo valore: lavorava e si sentiva più libero di quand’era a Racale. Una libertà pagata a peso d’oro, gli veniva in mente talvolta, mentre si guardava attorno coi suoi occhi neri che non stavano mai fermi, ma chi fa mai l’avaro con se stesso, se ha conosciuto la fame e in gioco ci sono futuro e dignità?
Se la tentazione di piantare baracca e burattini e andare via si faceva sentire, Vittorio, testardo, spiegava a se stesso che nessuno lascia la sua casa con piacere, ma non c’è paese più terribile d’una terra disperata e l’Italia, distrutta dalla guerra fascista, era ridotta davvero alla miseria.
Il Belgio per Vittorio ebbe così due volti: quello della fatica massacrante e pericolosa, che metteva in discussione la salute e la vita, e il suo rovescio, il volto della speranza che non ha prezzo, neanche se t’ammazza.
– La speranza non è merce di scambio, diceva spesso Vittorio a Luigi Sango, ch’era nato falegname in un paese del Trevigiano, e fuori della miniera era tutto capelli biondi, muscoli possenti e una valanga di allegria loquace.
Luigi scuoteva la testa come per dire no, ma poi conveniva obiettando:
– Della speranza questi fanno commercio, non diciamo scemenze, ma l’accordo è libero e la speranza non è una patacca. Dalle mie parti lavoro non ce n’era e la Federazione Carbonifera la sua merce sa venderla bene. In Belgio ci sono certamente dei carogna e la salute qui sotto te la giochi, ma sei tu che ci vieni. E poi guardati attorno: in miniera razzisti non ce n’è; nei cunicoli che scaviamo assieme, uno vicino all’altro, sporchi di polvere, irriconoscibili, mischiati e tutti neri, non c’è diversità, tutto s’annulla. Io sono stato prigioniero dei tedeschi in un fetentissimo campo di concentramento e sai che dico? Anche lì, volere o volare, le differenze non c’erano più.
– Pare che funzioni proprio così, rispondeva Vittorio, peggio stai, più ti fa pena chi soffre. La solidarietà di cui parlano tanto i preti e i comunisti, secondo me funziona solo in questo modo. Domani, caro Luigi, se tu diventi ricco, i compagni tuoi te li scordi. Qui dentro però, fino a quando ci sei, disgraziato tra disgraziati…
Erano nudi, ma il sudore colava e si soffocava. A 1500 metri di profondità, con 44 gradi di temperatura, sentivano sulla pelle un fuoco che bruciava e Ahmed Azilal, il marocchino lungo e nodoso come una canna, si sfilò le mutande, le strinse tra la mani callose per spremere via il sudore e poi se le infilò con un sospiro di sollievo.
Luigi lo guardò con un moto di rabbia e di pietà:
– Quando ti vedo, penso che sono ridotto come te e mi incazzo come un toro. Ma come hai fatto tu a venire dal tuo Marocco fin qua, disgraziato d’un africano?
– E’ stata la Federazione che è arrivata in Marocco. A Beni Mellal spesso fa caldo come in questo cunicolo, ma nessuno ti paga se sudi. Non si muore di silicosi, questo è vero, ma t’ammazza la fame, ch’è peggio. Sono venuto qua come ci sei venuto tu. Ho saputo che la Federazione cercava operai e mi sono “arruolato”. Arrivato a Milano non so come, mi sono presentato al Centro di Accoglienza nei pressi della Stazione Centrale e mi è andata bene. Qualche giorno d’attesa, poi ho superato le visite mediche e mi hanno infilato nell’elenco destinato a formare un “convoglio”. Un treno di legno mi ha portato qui e Allah ha voluto che incontrassi voi.
– Bell’incontro, sibilò Vittorio, addentando un pezzo del suo pane, mentre Luigi, guardando il marocchino, esclamò ridendo come un pazzo:
– Che affare abbiamo fatto col tuo Allah!
Per quanto incredibilmente diversi tra loro, erano diventati veramente amici. Tanto era furbo e chiacchierone Luigi, il trevigiano, quanto rigoroso e poco loquace Ahmed, il marocchino che si muoveva con incredibile naturalezza in quell’inferno di pale, scavatrici, puntelli e corpi nudi e sudaticci. Più riflessivo e calcolatore, come ogni buon contadino, si mostrava il pugliese Vittorio, e meglio si vedeva quanto immediato e impulsivo era Luigi. Figli di tre mondi, un cattolico, un musulmano e un senza dio come l’anarchico Luigi, i tre minatori sembravano completarsi a vicenda e formavano una piccola squadra efficiente e solidale. Ciò che li univa era soprattutto la speranza. Ahmed sperava di tornare alla sua oasi senza aver più paura della fame. Luigi contava di tornare al paese con un gruzzolo che gli consentisse di aprire un laboratorio di falegname e mettersi a fare mobili senza aver padroni. Vittorio era incerto, non aveva deciso se tornare o restare, ma era sicuro di poter sperare in qualcosa e gli bastava. Ahmed era un lavoratore che conosceva diritti e doveri, Vittorio aveva i ritmi lenti della sua campagna, Luigi, invece, era apertamente scansafatiche e marcava visita tutte le volte che in testa gli frullava un pensiero bislacco, ma gli ingegneri della Federazione controllavano la situazione con estrema efficienza e l’unica legge che conoscevano bene era quella feroce del profitto. In quanto ai medici, non volevano rogne e s’erano adeguati.
– Stamattina ero a pezzi, fece d’un tratto Luigi, e mi sono presentato dal dottore per un po’ riposo.
Ahmed si limitò a sorridere. Vittorio cambiò voce e, imitando il tono sibilante del medico dell’infermeria, anticipò Luigi:
– Piantala, Songa, e ringrazia il padreterno. Te l’ho già detto, è presto per riposare: nei tuoi polmoni non c’è polvere a sufficienza. Fa presto, è ora di montare.
Luigi, che s’era messo a strisciare come un serpente in un budello di meno di mezzo metro, stava per bestemmiare in trevigiano, quando scoppiò l’inferno. La volta del cunicolo cedette di schianto e un rumore sordo coprì un urlo disumano di paura e dolore. La polvere spessa e veloce inondò i polmoni, chiuse gli occhi e arrochì le voci. Ci volle un tempo che sembrò infinito prima che Ahmed riuscisse a prendere una pala e si lanciasse accecato dalla polvere verso il cunicolo nel quale Luigi non dava segni vita. Vittorio lo seguì tossendo e correndo alla cieca, ma si avvilì quando si accorse che il marocchino teneva tra le mani la testa di Luigi e sussurrava:
– Sta calmo, non è nulla.
Luigi aveva le gambe nascoste dai massi caduti e la testa sanguinante, ma era vivo. Non urlava. Si lamentava piano e ogni tanto implorava:
– Aiutatemi, aiutatemi. Sto morendo.
Tiravano via i massi a uno a uno. Ahmed metodico e silenzioso, Vittorio contratto e disperato.
– Non perdere la calma, ripeteva il marocchino, mentre scavava ed estraeva pietre. Vittorio non capiva se parlava a Luigi oppure a lui, ma se il trevigiano intrappolato girava gli occhi dalla sua parte, non lo guardava. Era terrorizzato.
– Aiutatemi, sto morendo…
– E sarebbe morto davvero se la forza, il coraggio e l’anima stessa di Ahmed non fossero entrati nel cunicolo, risucchiando i massi e l’ombra della morte, facendo spazio miracolosamente e tirando Luigi fuori dalla sua bara polverosa con la forza d’un leone e la delicatezza d’una madre.
Così, con queste poche parole rotte dall’emozione, Vittorio, curvo per gli anni, coi capelli bianchi ma ancora folti, molti anni dopo aveva raccontato ai suoi concittadini quei tragici momenti. Poi aveva aggiunto in un soffio:
– Luigi si salvò, ma all’ultimo momento un nuovo, imprevedibile crollo schiacciò Ahmed sotto una valanga di massi.
La cerimonia era giunta alla fine. Il sindaco aveva ormai scoperto la lapide che rammentava ai racalini il sacrificio dei loro minatori e l’eroismo del Ahmed.
– Luigi, diceva Vittorio, quel giorno uscì vivo dalla miniera perché Ahmed, il marocchino, che aveva un cuore immenso, non ci pensò due volte e si giocò la pelle. Il suo Allah gli avrà certamente riservato l’accoglienza dovuta ai santi islamici, se Maometto, lo consente o quella che attende i più grandi sultani. Anche Luigi se n’è andato anni fa, ma il suo sogno s’è avverato e i suoi mobili hanno fatto il giro del mondo. Il Belgio fu duro con noi, ma non fu mai veramente razzista. Molti dei miei compagni ci sono rimasti e vivono bene.
Era stanco Vittorio e, dopo tanto lottare e penare per quella lapide, non si sentiva davvero felice. I suoi occhi neri e irrequieti non correvano più a cercare chissà cosa e gli applausi affettuosi dei concittadini non cancellavano un velo di tristezza dallo sguardo che s’era fatto mesto. A pesargli non erano i ricordi. I conti col passato quadravano tutti e la vita non era stata avara. Gli pesava il presente, questo nostro tempo più duro e feroce della “mina” e certamente indegno del suo amico Ahmed. Come un eterno immigrato, Vittorio si sentiva straniero a casa sua.
– Forse avrei fatto meglio a restarmene in Belgio, mormorò tra sé, e si avviò verso casa rimuginando. Chissà che avrebbe detto Luigi. Il figlio, invitato più volte a Racale per la cerimonia, s’era inventato mille scuse e alla fine non s’era mosso dal Trevigiano. Vittorio e il suo paese, quel piccolo paese del Sud con la sua lapide e il suo marocchino, non facevano parte dell’orizzonte di un sindaco leghista.
da Ahmed, il marocchinodi Giuseppe Aragno
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