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Ecco il primo contatto della Capitanata con l’Unità d’Italia – 1 febbraio 1863

da www.manganofoggia.it

Per la prima volta dopo l’Unificazione avvenuta nel 1861, Foggia e la Capitanata prendono contatto con il potere centrale del nuovo Regno d’Italia, avendo subito e conosciuto fino a quel momento solo un cambio epocale, foriero di promesse non mantenute, presenza militare e azioni della forza di polizia.

Perchè la Commissione? Per vedere e riferire al Parlamento della situazione venutasi a creare nella Capitanata e perchè il Governo adotti le decisioni più giuste. La Commissione incontrerà e sentirà i rappresentanti di un popolo composto da un elemento moderato che aveva voluto l’unione del Regno delle due Sicilie al Piemonte, sicuramente col presupposto e la garanzia che per sè nulla cambiasse, e che, invece, vedeva sconvolto l’ordinato vivere civile dal brigantaggio e dai disordini; la sinistra democratica, che chiedeva la fine delle discriminazioni politiche e l’utilizzo delle forze locali per la lotta al brigantaggio.
Gli elementi illuminati che puntavano ad una politica economica e sociale a favore delle classi meno agiate, vera miniera di briganti; il potere militare, diffidente e geloso delle sue prerogative, convinto della necessità di più truppe, più carabinieri per riportare la pace e, infine, l’elemento reazionario o borbonico, anche di riflusso, da sempre avverso ai piemontesi visti come invasori, che non accetta la  loro presenza sul proprio territorio ed esprime la volontà del popolo meridionale di restare fedele ai suoi veri sovrani, i Borboni. La parte di questi che si è levata in armi sono i briganti, manutengoli tutti coloro che li sostengono anche a rischio della propria vita. Così li ha consegnati alla storia il vincitore.

I membri della Commissione parlamentare eletti in due scrutini il 17 e 18 dicembre 1862 sono nove: Aurelio Saffi di Forlì, Giuseppe Sirtori milanese, Stefano Romeo calabrese, Stefano Castagnola ligure, Achille Argentino di Melfi, Antonio Ciccone di Nola, Nino Bixio di Genova, Domenico Morelli di Cosenza e Giuseppe Massari di Bari.

La Commissione imbarcatasi a Genova il 7 gennaio, giunge a Napoli il 10 dove si trattiene fino al giorno 26 per proseguire poi per la Puglia dopo aver fatto tappa ad Avellino. Da qui riparte il 31 gennaio, pernotta ad Ariano Irpino ed il 1° febbraio giunge a Foggia dopo 9 ore di viaggio.

Durante il viaggio in carrozza, da Ariano a Foggia, fu avvertita la presenza di briganti, la banda Schiavone presso il Vallo di Bovino, così che due compagnie di linea furono immediatamente allertate, ma, senza esito. Comunque, la Commissione era ben scortata, a Bovino si pose al seguito della Commissione una squadra di lancieri venuta da Foggia e le Guardie Nazionali di tutti i comuni interessati al percorso furono schierate lungo il tragitto.

Da uno scambio epistolare fra il parlamentare Aurelio Saffi, componente della Commissione, e la moglie, si rileva: “Finito il mangiare (colazione presso la Stazione dei Carabinieri di Bovino) abbiamo ripreso il cammino: avevamo con noi, oltre la cavalleria regolare, una mano d’uomini a cavallo, proprietari, fittavoli, massari del Circondario; gente piena di energie, facce abbronzate, robusti e fermi sui rapidi cavalli, coi loro cappelli a larghe falde e i cappotti alla paesana, coi moschetti alla coscia; un fior di gente che, aggiunti ai cavalleggeri, alle Guardie Nazionali a piedi, ai picchetti di Carabinieri  e di linea, lungo la strada, sparsi ad ogni miglio o due di distanza, formavano tutti insieme una scena da romanzo di Walter Scott. E da Bovino a tre o quattro miglia verso Foggia sino all’ultimo colle, oltre il quale comincia la splendida pianura della Capitanata, ci scortarono a testimonianza d’onore, suppongo, anche i guardiani del più grande proprietario, un dì signore feudale del luogo, il Duca di Bovino, oggi Senatore; gente vestita in strana uniforme di colore giallo, con immensi cappelli alla tirolese e piume da bersaglieri. Insomma il nostro passaggio ha tirato fuori da questa contrada tutti gli elementi della società, ne’ loro diversi costumi e caratteri. Materie di osservazione e di studio non meno interessante di quello delle condizioni interne della società medesima….”.

Le impressioni del Saffi, unico vero esponente della sinistra, nobile, repubblicano di sicura fede, scrittore e giornalista di grande levatura, contrastano di molto con quelle espresse, nella stessa occasione, da Nino Bixio, Generale del Regio Esercito, che in alcune lettere inviate da Foggia alla moglie così si esprime: “Davvero mi fa schifo tutto quello che vedo in questo paese”. Ancora: “Passo lunghe olre d’ira, Dio sa se non creperò dalla bile”, “Questo popolo in massa è almeno tre secoli indietro al nostro”, “Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili!”, “…… questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili”.

La Commissione giunge a Foggia alle 5 della sera accompagnata dalle locali autorità pubbliche e militari che l’hanno attesa a tre miglia fuori città. Questi, all’epoca, gli esponenti massimi della città di Foggia:

– Prefetto: Giuseppe De Ferrari

– Comandate generale delle truppe attive: Conte Mazè della Roche – Generale di Cavalleria, Comandante del Reggimento di Cavalleri Lucca

– Vice Comandante: Barone di Cherilly – Colonnello di Cavalleria, Comandante il Reggimenro di Cavalleria di Montebello

– Comandante della Guardia Nazionale: Colonnello Navarra

– Sindaco facente funzioni: Felice La Stella assessore delegato

– Presidente Amministrazione Provinciale: Giambattista D’Amely

-Amministratore della Dogana: Teodorico Fallocco

Le truppe acquartierate in Provincia di Foggia erano le seguenti:

– Reggimento Cavalleria Montebello

– Reggimento Cavalleria Lucca

– XIV Reggimento di Fanteria

– XXIII Reggimento del Genio

E’ pieno inverno, a Foggia tutto il potere è passato in mano ai militari, i capi più autorevoli, piemontesi, preferiscono parlare e  scrivere in francese. Il giornale “La Daunia”, ispirato alla sinistra democratica, era stato soppresso. Le strade della città avevano preso a risuonare del passo degli squadroni dei Lancieri dei Reggimenti Montebello e Lucca, dei bersaglieri e del Reggimento del 14° Fanteria. Le carceri erano piene. Foggia è diventata una città assediata, proibito uscire dall’abitato, e ai proprietari proibito recarsi alle proprie masserie alle quali erano state murate porte e finestre.

Racconta Carlo Villani in “Cronistoria di Foggia 1848-1870” :<Il terrore si era sparso per ogni angolo della Provincia, e tutto per conseguenza, finì per languire: le industrie abbandonate, le arti inerti, le professioni avvilite, e la miseria divenuta oltre ogni dire gigante. Si diede ordine, il 29 agosto, di tenere chiuse durante questo periodo le masserie, le poste ed ogni stabilimento industriale, e di non più panificarsi in campagna per togliere così l’agio ai briganti di provvedersi di pane, s’iniziò un nuovo calvario dei proprietari, costretti in tal modo a inviarne dalla città, col rischio e pericolo di compromettersi con la giustizia……….>.

Alla fine dell’anno si è seminato solo un terzo delle terre; si vendono le greggi, fonte tradizionale di ricchezze, e i pascoli sono fittati a un tozzo di pane. Fuori le mura scorazzano torme di briganti a cavallo che bruciano i raccolti, razziano il bestiame, ricattano e rapiscono proprietari, impongono taglie, e sulla povera Provincia di Capitanata nuda e devastata, si scontrano ferocemente i reparti a cavallo delle truppe piemontesi e le bande senza pietà di Caruso, di Crocco e Ninco Nanco.

Il Gargano è ricetto di una miriade di bande a cavallo e appiedate: lu Zambru, Nicandrino, Nicandruccio, Bruciapaese, Recchiomozzo, Potecaro, il Principe Luigi, taglieggiano le zone di San Marco, Monte Sant’Angelo, Apricena, scendono spesso nel Tavoliere. Nel sub-appennino le bande di Caruso, Varanelli e di Cicogna. A Cerignola Pagliaccello, a Lucera Schiavone e Colapietro.

Gli interrogatori e le audizioni iniziarono il 2 febbraio a Palazzo Dogana, la lingua corrente è il francese. Il primo interrogato dalla Commissione fu il Prefetto della Provincia, Cav. Giuseppe De Ferrari, longa manus di La Marmora in Capitanata. La sua relazione fu di carattere prettamente militare, incentrata sui metodi di repressione del brigantaggio; nessun accenno al quadro economico, alle difficoltà sociali. Poi viene interrogato il Col. Mazè de la Roche, Comandante delle truppe in Capitanata. E’ un discorso fra militari che vede il Mazè confrontarsi con una Commissione per un terzo composta da militari (Bixio, Sirtori, Argentino). La sua deposizione si chiude con un omaggio “ai combattenti dell’altra parte, che muoiono con un certo stoicismo e che si fanno briganti per romanticismo”. Infatti, dall’altra parte, le truppe piemontesi non hanno di fronte nè i bianco-soldati austriaci, nè le azzurre divise dei soldati borbonici, ma poveri cafoni, spaventati ed ignoranti che appena presi vengono passati per le armi.

Il giorno successivo riprendono le interrogazioni a rappresentanti più legati al territorio: il Sen. Domenico Varo, il ff. di Sindaco La Stella e gli ex Sindaci Lorenzo Scillitani e Marchese De Rosa.

Dalle dichiarazioni del Sen. D. Varo “La classe dei terrazzani è assai numerosa….. Non hanno niente di loro; quindi la proclività al furto e alla devestazione; naturalmente questa gente è di aiuto ai briganti. Per impedire che questa classe faccia male, bisogna aiutarla: dar loro quella terra che i “rivoluzionari” hanno ad essi promessa. Di queste terre ve ne sono molte. Cominciano a S. Cecilia, Tressanti, Paglicci. Vi sono pure altri luoghi che con quelli fanno parte dell’Amministrazione del Demanio”.

In definitiva il rimedio proposto dal Senatore è da attuarsi in due fasi,  prima la repressione, poi aiutare la classe dei terrazzani.

La successiva deposizione del ff. Sindaco, Felice La Stella, pone in risalto le tristi condizioni del proletariato e “le delusioni dell’Unità” come fonte del brigantaggio.

Scillitani: “la popolazione è formata da un alto ceto composto dagli agricoltori…. c’è poi la classe artigiana  e poi ci sono i terrazzani dai quali i briganti traggono forze……. lo spirito pubblico è scarso e i proprietari sono in tristissime condizioni”. Inoltre, denuncia l’insufficienza della polizia.

L’ex Sindaco di Foggia De Rosa, prima voce appartenente all’opposizione, riconosciuto capo della sinistra foggiana: “La colpa è dei Prefetti venuti dall’Italia settentrionale i quali ignorando le condizioni del paese hanno creduto di venire qui a reprimere la rivoluzione mentre dovevano fare il contrario”.

Il 4 febbraio la Commissione dedica la sua attenzione alla provincia. Quella di Luigi Ricca, consigliere provinciale di Foggia risulta fra le più valide: “Il brigantaggio è una ribellione sociale contro l’attuale sistema di proprietà” che è maldivisa; non esistono altre fonti di entrata per il popolo, nè industriali, nè commerciali, e che i salari sono “meschinissimi”. I cafoni hanno un reddito di 130/140 lire l’anno e un mensile di 50 centesimi al giorno. L’alimentazione è scarsa e nelle famiglie per sopravvivere devono lavorare anche i ragazzi e le donne.

Il 7 febbraio, terminano gli interrogatori a Foggia. La Commissione per far fronte ai numerosi solleciti che pervengono da ogni parte del Mezzogiorno si divide in due sottocommissioni. La prima (Sirtori, Bixio, Argentino) parte la notte del 10 febbraio per San Severo per poi proseguire per Melfi e Potenza. La seconda si recherà a Bari, Lecce, Taranto e poi Matera.

L’interessamento della Commissione si era concentrato principalmente sulle questioni relative alla repressione del brigantaggio ed ai problemi ad essa connessi, mentre il problema principale restava quello dell’affrancazione dell’immensa proprietà dell’abolita Dogana della Mena delle Pecore di Foggia, passata al Tavoliere, e proprio a Teodoro Fallocco, Direttore del Tavoliere, la Commissione chiese lumi.

 Il Fallocco è un eccellente funzionario, di riconosciuta competenza e così risponde al Gen. Sirtori, Presidente della Commissione:

 All’Onorevole Sig. Presidente

della Commissione d’inchiesta per il

brigantaggio – FOGGIA

                                                        Foggia 11 Febbraio 1863

Onorevole Signor Presidente,

aderendo al desiderio manifestato dalla Commissione, adempio al dovere d’inviarle copia di alcune note statistiche ed istoriche del Tavoliere, sulle industrie nazionali di Tressanti, e sul modo di utilizzare le sue terre a pro degli abitanti poveri della Provincia. Troverà pure esatte notizie dei salari che si usa dare in Puglia ai Pastori ed agli Agricoltori secondo la differenza di grado. Un progetto di legge per l’affrancazione delle terre fiscali, ed alcune osservazioni sul modo di attuarle, onde l’agricoltura e la pastorizia non ne soffrano. E finalmente una statistica dei provvedimenti dati al Tesoro dall’Amministrazione del Registro e Bollo  nella Capitanata durante un decennio, sotto l’impero della Legge 21 Giugno 1819. e di quelli dati per sette mesi colla Legge 21 Aprile 1862. Riceverà pure un quadro statistico della divisione fondiaria divisa per articoli in ragione della rendita imponibile.

Sarei lietissimo se Ella e la Commissione vorranno fare buon viso a questa piccola raccolta di notizie, non riguardandole dal lato scientifico o letterario, di cui mancano, ma da quello della importanza economica e politica che potrebbero avere, quantunque volte venissero fecondate dall’alta sapienza del Parlamento.

Accolga gli attestati di mia profonda osservanza.

                                                           IL DIRETTORE

                                                             Fallocco

Le c.d. “Carte Fallocco”, importantissime, puntuali e precise, unitamente ad un notevole numero di documenti, furono consegnate alla segreteria della Camera a disposizione dei deputati e qui giacquero fino al 1964 (si 1964) quando lo storico Franco Molfese le rese note nel volume “Storia del Brigantaggio dopo l’Unità”, Feltrinelli editore, Milano 1964.

 Per fermarci all’evento della Commissione parlamentare a Foggia, l’unico e più immediato esito che produsse fu la famigerata Legge Pica, dal nome del suo promotore Giuseppe Pica. Questa legge fu promulgata dal Parlamento  e resa operativa il 15 agosto 1863, rimanendo in vigore fino 31 dicembre 1865.

Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge Pica intendeva porre rimedio  al fenomeno del brigantaggio nel Mezzogiorno, istituendo tribunali militari sul territorio e permettendo la repressione di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato di assedio interno.

Senza bisogno di un processo si potevano porre agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti, fino a un anno di reclusione. Nelle province infestate dai briganti tutte le bande armate di più di tre persone, complici inclusi, potevano essere giudicati dalla corte marziale.

 Alla soppressione dei diritti costituzionali si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi.

Il “contingente di pacificazione” constava dall’inizio di 120.000 unità, per poi discendere negli anni successivi a 90.000 uomini prima e poi a 50.000, quasi la metà dell’allora esercito unitario. I morti per la repressione dovuti alla legge Pica furono superiori a quelli di tutte le guerre del Risorgimento. 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel 1865 furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi, 306 alla reclusione ordinaria.

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