di Michele Giuliano da San Paolo Civitate
Parlava sempre molto poco mio padre, anzi a volte non parlava proprio, ma ti guardava fisso negli occhi e a noi toccava capire, interpretandone lo sguardo, cosa c’era da fare. La prima volta che riuscii ad intavolare un discorso completo con lui avevo ormai quasi sedici anni. Si parlava ovviamente di politica. Io, come tutti i ragazzi dell’epoca, plasmato dal ’68 appena trascorso, tendevo ai movimenti extraparlamentari di sinistra, lui invece socialista vecchio stampo alla Pertini, si vantava della sua amicizia con l’onorevole Di Vagno. Ricordo comunque che i discorsi tra noi finivano sempre con lui che mi diceva : “ Ch’ t’ crìd mò tu cha p’cchè ha studièt sèp ‘cchiù còs d’ mè? Avùglij angòr a fa fùgn; Avùglij a magnà pèn tòst! Jì tèngh sùl u tèrz avviamènt ma t’è ‘mbarà e t’è perd! ( Credi di saperne più di me perché hai studiato? Hai voglia ancora a cercare funghi; Hai voglia a mangiare pane duro! Io ho solo il terzo avviamento – non c’erano ancora le elementari -, ma posso insegarti ancora molto!). Alla fine aveva ancora ragione lui! E’ proprio così! Lui era in grado di fare tantissime cose che io neppure immaginavo. “T’è mparèt a ‘nnstà! T’è mparèt a sar’m’ntà e a fa a carvunèll! T’è ‘mparèt a pul’zzà i puzz e a v’l’gnà!” ( Ti ho insegnato a fare gli innesti, ti ho insegnato a potare le vigne e a fare la carbonella, ti ho insegnato a ripulire i pozzi e a vendemmiare). A tutto questo potevo solo contrapporre la mia profonda conoscenza del greco, del latino, dei classici e della letteratura. Tutte cose validissime per carità, ma che nel pratico non servivano granché. Uno di quei giorni che lo avevo trovato più disponibile a parlare gli chiesi “ Papà ma come mai non hai continuato a studiare” ? Subito dopo averla formulata mi resi conto di quanto era stata inopportuna la domanda. Mio padre era nato nel 1920, cioè nell’immediato dopoguerra. In quel periodo l’unica cosa che non mancava era “la fame”!
In più a cinque anni era rimasto orfano di padre e con altre due sorelle a cui badare. La madre da sola non poteva farcela e fu così che dopo il “terzo avviamento” lo mandò a garzone. Tra i tanti “mestieri” che mio papà aveva fatto, mi raccontava che il più pesante, il più duro e non solo per un ragazzo era il mestiere del “matunèr” – il mattonaio, il fabbricante di mattoni. E’ un mestiere oggi praticamente scomparso anche grazie alle nuove tecniche di edificazioni edilizie. Ma prima degli anni cinquanta “u matunèr” era un mestiere molto richiesto perché, data la sua durezza, erano in pochissimi a farlo e quei pochissimi erano oberati di lavoro. Era una attività stagionale legata soprattutto alla stagione calda con scarsa piovosità. Iniziava verso aprile per terminare verso la metà di settembre. “U matunèr” era un po’ come l’operaio di quel periodo. Lavoro a cottimo e perlopiù sottopagato! Si lavorava quasi diciotto ore al giorno. Bisognava vivere sul posto di lavoro dentro un casotto allo scopo costruito; per letto un mucchio di paglia, un tozzo di pane ed un piatto di minestra. Nessun divertimento, pochissime ore di sonno (giusto il tempo per riprendere le forze) e se ti ammalavi ti facevano guarire a “botta” di iniezioni di penicilline. Sveglia alle tre del mattino ed avanti sino alle dieci di sera: obiettivo produrre mattoni. Per fare questo per prima cosa bisognava procurarsi la materia prima: la terra, ma non terra comune, una terra particolare “ a lòt” cioè quella fanghiglia molto particolare ed argillosa che dalle nostre parti viene definita “ a crét” , ma non quella usata dai vasai. I “matunèr” ne cavavano un’altra più grezza e sabbiosa. Con le carriole la trasportavano in uno spiazzo e lì veniva lasciata asciugare al sole. Dopo alcuni giorni, “cu zappòn e u p’còn” la montagna di terra veniva frantumata , portata in uno spiazzo creato apposta e qui veniva abbondantemente annegata con l’acqua dei pozzi locali ricchi di ferro. Quindi si procedeva ad impastarla pestandola a piedi nudi come si faceva con l’una per spremere il vino. Si pestava per circa quattro ore consecutive. A fine stagione si riusciva a perdere oltre dieci chili. Terminato l’impasto, l’amalgama veniva ricoperto per non farlo seccare al sole e subito dopo si procedeva al lavoro di “formare” il mattone. Veniva preparato un bancone in legno su cui con mano esperta il mattonaio stendeva la mota e la poneva, nella giusta quantità negli stampi. Tutto il procedimento era manuale e solo l’esperienza del mattonaio faceva sì che pochissima quantità di argilla andasse sprecata. L’argilla veniva messa nelle forme rettangolari e cosparsa di sabbia in modo che non aderisse alle pareti dello stampo. Con un coltello si rasava per bene togliendo le eventuali sbavature dopo di che chi estraeva il mattone crudo che veniva lasciato asciugare al sole per essere poi cotto nella fornace. Questa fase doveva essere svolta velocemente per impedire all’amalgama di seccarsi e quindi divenire inutilizzabile per gli stampi. Gli stampi erano di due diversi tipi: a due comparti per “i matùn chjìn” e ad un comparto per “i matunàzz”. I mattoni venivano fatti “riposare ed asciugare” per circa dieci giorni mettendoli in cataste a spina di pesce (ogni mattone era adagiato obliquamente su due sottostanti). Un mattonaio particolare, diciamo specializzato, che usava anche un particolare attrezzo era l’addetto alla produzione del coppo – “u pìng”. Espletata l’asciugatura dei mattoni bisognava prepararsi per portarli alla fornace. Si chiamava “nu traìn” che adeguatamente caricato trasportava il tutto alla fornace. La fornace era di forma cilindrica e frontalmente presentava una apertura di circa 80 cm – a purtèll – da cui si introducevano i mattoni. La fornace aveva varie dimensioni. Quelle dove aveva lavorato mio padre situate nei pressi di Serracapriola avevano una capacità di circa 42.000 mattoni posti in file distanti tra loro tre o quattro centimetri. Dal lato opposto alla “purtèll” o in alternativa sotto vi era un’altra apertura da cui “c’ m’nèv fòch” – si alimentava il fuoco di cottura. I mattoni cuocevano a fuoco vivo per tre o quattro giorni e si consumavano carr’ttùn e carr’ttùn d’ pagghij! A fuchèt terminava quando la fiamma assumeva un colore bluastro. “I matùn jèv’n còtt” ! C’ car’cav’n i traìn e c’ purtav’n i matùn ‘ndo ‘bb’sugnàv’n! – I mattoni erano cotti. Si caricavano i carretti e si portavano i mattoni dove servivano. Quasi lo stesso procedimento, ma molto più redditizio, era la cottura di pietre calcaree che dopo averle fatte bollire ad altissima temperatura e raffreddate venivano fatte ribollire con dell’acqua e davano come prodotto finito la calce. La calce per molto tempo venne stata usata in edilizia come collante oppure come pittura disinfettante nelle stalle ed in altri ambienti. Lavoro ingrato quello del mattonaio. Stagionale, precario e sottopagato. Per mesi vivevi fuori casa, fuori paese ed alla fine portavi a casa pochi spiccioli. Ma anche quelli servivano per tirare avanti! Scomparve definitivamente dopo gli anni cinquanta. Dopo avermi raccontato tutto questo mio padre mi disse: “Mò u capìsc” p’cché quand ìm fàtt sta chès ìm r’cuparèt a vun a vun i matùn da quella vècchij. M’ luvèt u tunachìn e l’im mìss n’ata vòt ‘ndà sti mur. Dint a sti matùn sta u sàng e s’dòr mìj!” – Adesso puoi capire perché abbiamo fatto questa casa abbiamo recuperato uno ad uno i mattoni di quella vecchia. Abbiamo tolto l’intonaco e li abbiamo riutilizzati. In questi mattoni c’è il mio sangue ed il mio sudore.
In più a cinque anni era rimasto orfano di padre e con altre due sorelle a cui badare. La madre da sola non poteva farcela e fu così che dopo il “terzo avviamento” lo mandò a garzone. Tra i tanti “mestieri” che mio papà aveva fatto, mi raccontava che il più pesante, il più duro e non solo per un ragazzo era il mestiere del “matunèr” – il mattonaio, il fabbricante di mattoni. E’ un mestiere oggi praticamente scomparso anche grazie alle nuove tecniche di edificazioni edilizie. Ma prima degli anni cinquanta “u matunèr” era un mestiere molto richiesto perché, data la sua durezza, erano in pochissimi a farlo e quei pochissimi erano oberati di lavoro. Era una attività stagionale legata soprattutto alla stagione calda con scarsa piovosità. Iniziava verso aprile per terminare verso la metà di settembre. “U matunèr” era un po’ come l’operaio di quel periodo. Lavoro a cottimo e perlopiù sottopagato! Si lavorava quasi diciotto ore al giorno. Bisognava vivere sul posto di lavoro dentro un casotto allo scopo costruito; per letto un mucchio di paglia, un tozzo di pane ed un piatto di minestra. Nessun divertimento, pochissime ore di sonno (giusto il tempo per riprendere le forze) e se ti ammalavi ti facevano guarire a “botta” di iniezioni di penicilline. Sveglia alle tre del mattino ed avanti sino alle dieci di sera: obiettivo produrre mattoni. Per fare questo per prima cosa bisognava procurarsi la materia prima: la terra, ma non terra comune, una terra particolare “ a lòt” cioè quella fanghiglia molto particolare ed argillosa che dalle nostre parti viene definita “ a crét” , ma non quella usata dai vasai. I “matunèr” ne cavavano un’altra più grezza e sabbiosa. Con le carriole la trasportavano in uno spiazzo e lì veniva lasciata asciugare al sole. Dopo alcuni giorni, “cu zappòn e u p’còn” la montagna di terra veniva frantumata , portata in uno spiazzo creato apposta e qui veniva abbondantemente annegata con l’acqua dei pozzi locali ricchi di ferro. Quindi si procedeva ad impastarla pestandola a piedi nudi come si faceva con l’una per spremere il vino. Si pestava per circa quattro ore consecutive. A fine stagione si riusciva a perdere oltre dieci chili. Terminato l’impasto, l’amalgama veniva ricoperto per non farlo seccare al sole e subito dopo si procedeva al lavoro di “formare” il mattone. Veniva preparato un bancone in legno su cui con mano esperta il mattonaio stendeva la mota e la poneva, nella giusta quantità negli stampi. Tutto il procedimento era manuale e solo l’esperienza del mattonaio faceva sì che pochissima quantità di argilla andasse sprecata. L’argilla veniva messa nelle forme rettangolari e cosparsa di sabbia in modo che non aderisse alle pareti dello stampo. Con un coltello si rasava per bene togliendo le eventuali sbavature dopo di che chi estraeva il mattone crudo che veniva lasciato asciugare al sole per essere poi cotto nella fornace. Questa fase doveva essere svolta velocemente per impedire all’amalgama di seccarsi e quindi divenire inutilizzabile per gli stampi. Gli stampi erano di due diversi tipi: a due comparti per “i matùn chjìn” e ad un comparto per “i matunàzz”. I mattoni venivano fatti “riposare ed asciugare” per circa dieci giorni mettendoli in cataste a spina di pesce (ogni mattone era adagiato obliquamente su due sottostanti). Un mattonaio particolare, diciamo specializzato, che usava anche un particolare attrezzo era l’addetto alla produzione del coppo – “u pìng”. Espletata l’asciugatura dei mattoni bisognava prepararsi per portarli alla fornace. Si chiamava “nu traìn” che adeguatamente caricato trasportava il tutto alla fornace. La fornace era di forma cilindrica e frontalmente presentava una apertura di circa 80 cm – a purtèll – da cui si introducevano i mattoni. La fornace aveva varie dimensioni. Quelle dove aveva lavorato mio padre situate nei pressi di Serracapriola avevano una capacità di circa 42.000 mattoni posti in file distanti tra loro tre o quattro centimetri. Dal lato opposto alla “purtèll” o in alternativa sotto vi era un’altra apertura da cui “c’ m’nèv fòch” – si alimentava il fuoco di cottura. I mattoni cuocevano a fuoco vivo per tre o quattro giorni e si consumavano carr’ttùn e carr’ttùn d’ pagghij! A fuchèt terminava quando la fiamma assumeva un colore bluastro. “I matùn jèv’n còtt” ! C’ car’cav’n i traìn e c’ purtav’n i matùn ‘ndo ‘bb’sugnàv’n! – I mattoni erano cotti. Si caricavano i carretti e si portavano i mattoni dove servivano. Quasi lo stesso procedimento, ma molto più redditizio, era la cottura di pietre calcaree che dopo averle fatte bollire ad altissima temperatura e raffreddate venivano fatte ribollire con dell’acqua e davano come prodotto finito la calce. La calce per molto tempo venne stata usata in edilizia come collante oppure come pittura disinfettante nelle stalle ed in altri ambienti. Lavoro ingrato quello del mattonaio. Stagionale, precario e sottopagato. Per mesi vivevi fuori casa, fuori paese ed alla fine portavi a casa pochi spiccioli. Ma anche quelli servivano per tirare avanti! Scomparve definitivamente dopo gli anni cinquanta. Dopo avermi raccontato tutto questo mio padre mi disse: “Mò u capìsc” p’cché quand ìm fàtt sta chès ìm r’cuparèt a vun a vun i matùn da quella vècchij. M’ luvèt u tunachìn e l’im mìss n’ata vòt ‘ndà sti mur. Dint a sti matùn sta u sàng e s’dòr mìj!” – Adesso puoi capire perché abbiamo fatto questa casa abbiamo recuperato uno ad uno i mattoni di quella vecchia. Abbiamo tolto l’intonaco e li abbiamo riutilizzati. In questi mattoni c’è il mio sangue ed il mio sudore.
Tornando quindi all’inizio del discorso ancora una volta aveva avuto ragione il mio vecchio: La scuola può darti la cultura che ti insegna a capire le cose, ma è la vita, quella reale che ti insegna a vivere e molto spesso a sopravvivere!