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“Ti mangio il cuore”, la mafia del Gargano raccontata in un libro

da ilmanifesto.it (di Vincenzo Scalia)

Il legame tra la produzione letterario-mediatica e la presa di coscienza dell’esistenza di una specifica organizzazione criminale, rappresenta una costante che si riproduce nel tempo. È iniziato tutto coi romanzi di Sciascia e le serie televisive della Piovra nel caso di Cosa Nostra. Negli anni recenti, i lavori e le comparsate mediatiche di Gratteri e Saviano, hanno puntato i riflettori su camorra e ‘ndrangheta. Un fenomeno criminale viene posto di fronte all’opinione pubblica, spettacolarizzandone gli aspetti più efferati, in modo da definirlo allo stesso tempo come un’emergenza nazionale, un residuo di primordialità che sfida le moderne istituzioni statuali. Dall’altra parte, a sfidarlo, esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura competenti, efficienti, dotati di senso dello Stato, spesso incompresi dalle autorità. Se questo schema riscuote successo relativamente alla presa di coscienza, risulta detrimentale rispetto all’approccio analitico e alle complessità dei fenomeni.
IL LIBRO di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, Ti Mangio il Cuore (Feltrinelli, pp. 220, euro 16), il primo lavoro ad ampia diffusione sulla criminalità organizzata foggiana si colloca nello stesso solco. A metà tra un noir e un’inchiesta, mette in scena la cosiddetta «quarta mafia» : i Li Bergolis, i Romito, i Tarantino e i loro sodali, vengono dipinti a tinte quasi lombrosiane. L’origine agro-pastorale, l’organizzazione su base familiare, i codici ancestrali, sembrano quasi presupporre la crudeltà con cui vengono regolate le controversie tra i gruppi rivali che operano sia sul versante garganico che nel capoluogo. Dall’altra parte della barricata, si staglia la solita lacuna atavica dell’indifferenza dello Stato, che lascia impotenti quei pochi poliziotti e magistrati consapevoli del pericolo. Alcuni spunti validi vengono messi in ombra dallo schema sopracitato. Per esempio, gli autori notano la mancanza di riti di affiliazione all’interno dei clan della Capitanata, mettendo così in risalto la natura funzionale delle alleanze e delle rivalità. Al limite, si ha un radicamento territoriale che deriva dalle attività pastorali svolte da secoli. È stato perciò possibile per alcuni gruppi ritagliarsi una posizione di vantaggio al momento in cui, le rotte della marijuana, il boom del turismo religioso ed estivo, la spesa pubblica, hanno orientato flussi ingenti di capitali verso un contesto sociale fino a pochi anni fa depresso. Si è prodotta così una modernizzazione irruenta, caratterizzata da un eccesso di risorse relazionali a corto raggio (famiglia, amicizia, territorio) e di una carenza di strumenti materiali e simbolici. I rituali identitari proposti da Raffaele Cutolo diventano perciò obsoleti e superflui, come la memoria storica delle lotte dei braccianti nella terra di origine di Giuseppe Di Vittorio. Cerignola, oggi, gode di una notevole reputazione criminale per la presenza di bande efficienti di rapinatori, che svolgono le loro attività anche lontano da casa. Un altro aspetto rilevante riguarda l’assenza di distinzione tra macro e microcriminalità, che suffragherebbe ulteriormente il carattere innovativo dei gruppi della Capitanata. È senz’altro possibile convergere su questo punto, ma bisognerebbe articolarne le ragioni: innanzitutto, la stratificazione dei livelli criminali, all’interno delle altre organizzazioni, non si dà a breve termine, ma si connota come il prodotto di un processo storico di lunga durata. Inoltre, in un quadro economico fluido, caratterizzato da repentini capovolgimenti di fronte, le economie sporche registrano processi speculari a quelli del contesto legale: una presenza permanente sul territorio, una potenza di fuoco minima, possono bastare a gruppi piccoli e marginali per ritagliarsi uno spazio all’interno di un contesto in espansione (si vedano i narcos messicani).

INFINE, il libro mette in rilievo l’importanza della sinergia tra la società civile e gli attori della repressione statuale. Senza la mobilitazione delle famiglie di due delle vittime della strage di San Marco in Lamis del 2017, e il sostegno a loro fornito dalla società e dalle istituzioni locali, non si sarebbe appurata la verità. Aspetto senza dubbio cruciale, che però suscita un altro interrogativo, tralasciato dagli autori: perché sono necessarie sempre delle stragi efferate prima che le istituzioni prendano coscienza dei fenomeni di criminalità organizzata?
Si tratta di una questione cruciale, anche perché, la retorica anti-mafiosa che ne consegue, innesca pratiche emergenzialiste, improntate alla repressione, ai saperi tecnocratici di superpoliziotti e magistrati, relegando in secondo piano le energie e le risorse sociali. In fondo, Foucault insegna, le classificazioni, tipo quelle di quarta o quinta mafia, alimentano i discorsi di potere.

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