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Il Carnevale com’era…antiche tradizioni pugliesi, garganiche e peschiciane

Donne sannicandresi
Relazione della Prof.ssa T. Rauzino al Convegno del Centro Studi Martella: 
“Il Carnevale com’era…Antiche tradizioni pugliesi, garganiche e peschiciane”.

Il Carnevale pugliese tra simbologie, eccessi e divieti

Qualche anno fa, precisamente nel 2007, il prof. Pietro Sisto  dell’Università di Bari e Taranto mi invitò a pubblicare il mio saggio sulla “Zeza Zeza (perduta) del Carnevale di Peschici”  (pubblicato in anteprima sull’Attacco)  nel suo libro” L’ultima festa”, edito da Progedit. Un bellissimo libro che suscita sempre il mio interesse e che mi preme presentare anche ai nostri lettori.
Quella raccontata da Sisto è la prima “storia” del Carnevale in Puglia indagata negli  aspetti antropologici, nelle profonde trasformazioni che, soprattutto nel secolo scorso, hanno accompagnato la festa in angoli diversi della regione, dalla più nota Putignano fino a Trani, Molfetta, Bitonto, e ai centri “minori” (ma non per questo meno importanti) come Peschici.

Il Carnevale a Putignano partiva dal 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, una festa nata in relazione alla traslazione delle reliquie del santo da un’altra città, per preservarle dall’attacco dei Turchi. E’ il 1394. La popolazione festeggia, si traveste in maschera.

Lo faceva anche il 17 gennaio festa di sant’Antonio Abate, che dava il via ufficiale al carnevale pugliese, che proseguiva, il 2 febbraio, con la festa della Candelora, fino ad arrivare al giovedì grasso e al martedì grasso che chiudevano la festa.

Quattro erano gli animali che rappresentavano la ritualità del carnevale: l’asino, il maiale (porco), il tacchino (vicc) e l’orso. A Putignano era proprio la festa dell’orso che apriva (ed apre ancora oggi) i festeggiamenti. L’orso simboleggiava il risveglio della natura, e il propiziarsi la stagione favorevole perché il 2 febbraio, l’orso prediceva (all’incontrario) il tempo buono se quel giorno il tempo era cattivo, e viceversa.

Dell’ “ultima festa” Sisto mette in luce non solo i riti più irriverenti, legati al divertimento, ai piaceri del corpo e alla gastronomia, ma anche il rovesciamento dei ruoli sociali, e lo scontro tra società laica e gerarchie ecclesiastiche che si opposero strenuamente, ma con scarsi risultati, allo spirito carnevalesco della società contadina.

Intriganti sono le osservazioni che Sisto fa sul modo in cui il Carnevale veniva osteggiato dalle autorità ecclesiastiche. Il Carnevale era un periodo  in cui le licenziosità erano all’ordine del giorno, per cui la Chiesa “ufficiale” sentiva il dovere di intervenire, emanando degli editti che proibivano certi comportamenti “lascivi”. E lo faceva in modo forte, proibendo ai chierici e alle suore di festeggiare il Carnevale.  Ne succedevano di tutti i colori, nei conventi maschili e femminili (e non solo, perchè anche alti prelati partecipavano ai “festini” che venivano dati nelle case signorili pugliesi).

Veri e propri editti vennero emanati dai monsignori delle varie diocesi pugliesi per bloccare queste licenziose manifestazioni di trivialità. A Trani si svolgeva una processione, la cosiddetta processione del Santo Membro, in cui veniva portata in processione una vecchia statua di legno che rappresentava Priapo con il fallo (l’elemento “proibito” che caratterizza questa divinità) sproporzionato rispetto al resto del corpo, e che arrivava fino all’altezza del mento. Ci volle l’intervento iconoclasta dell’illuminato arcivescovo Giuseppe Antonio Davanzati, da sempre impegnato  nella lotta contro le superstizioni,   fantasmi, vampiri e spettri di ogni genere, per bloccare definitivamente questo corteo blasfemo, cui probabilmente amavano accodarsi preti e frati.

Priapo era un personaggio della mitologia greca, figlio di Afrodite. Rappresentava l’istinto, la forza sessuale maschile e la fertilità della natura. Il suo culto, risalente ai tempi di Alessandro Magno, fu largamente ripreso anche dai Romani, soprattutto collegato ai riti dionisiaci e associato al mondo agricolo ed alla protezione delle greggi, dei pesci, delle api, degli orti. Le feste in onore di Priapo avevano un grande rilievo nel calendario sacro. Nel mondo greco classico, durante le Falloforie  (processioni solenni in onore di Priapo e Dioniso) si trasportavano enormi falli di legno, accompagnando il corteo con canti tipici come quello del poeta Semos di Delo: «Ritiratevi, fate posto al dio! Perché egli vuole enorme, retto, turgido, procedere nel mezzo». Le processioni terminavano con una pioggia di acqua mista a miele e succo d’uva, indirizzata verso i campi, che rappresentava l’eiaculazione del seme, origine della vita. Propiziava l’abbondanza del raccolto.

A Roma, le vergini patrizie, prima di contrarre matrimonio, rivolgevano una particolare preghiera a Priapo, affinché rendesse piacevole la loro prima notte di nozze.

L’animale sacro a Priapo era l’asino, per l’importanza che aveva nella vita contadina, e per l’analogia fallica. Ogni anno ne veniva sacrificato un esemplare.

Ritornando agli editti arcivescovili settecenteschi, Pompeo Sarnelli (autore  della  Cronologia de’ vescovi et arcivescovi sipontini), quando era vescovo di Bisceglie, stigmatizzò l’abitudine molto diffusa tra i  sacerdoti di prendere parte a balli e festini, minacciando di punire, con pene severissime, i trasgressori. Il 30 gennaio 1719 emanò questo editto:«Ordiniamo ed espressamente comandiamo che niuna persona ecclesiastica ardisca intrigarsi in maschere, balli, e giuochi carnevaleschi, sotto pena agli ordinati in Sacris, della sospensione a divinis ipso facto incurrenda a Noi riservata ed a’ chierici della carcere, ed altre pene a Nostro arbitrio».

Sempre tra Sei e Settecento, è il clero bitontino a preoccupare seriamente le gerarchie ecclesiastiche: nel 1685 alcuni sacerdoti, appartenenti alle più note e potenti famiglie patrizie, suscitano scandalo in tutta la comunità cittadina «appendendo al chiodo la tonaca e l’abito talare per vestire i panni, chi di donna, chi di contadino». In seguito, vari vescovi della stessa diocesi di Bitonto proibirono ai chierici di frequentare taverne e osterie, e di andare in giro, intonando canti osceni e musiche profane.

Nei giorni di Carnevale, i chierici dovevano vestire rigorosamente l’abito talare, lungo e nero senza aggiunta di altri colori che potessero confonderli con i laici che si vestivano con abiti similari. Furono proibiti i bottoni dorati, vietarono i colli e i manichetti di colore turchino; questi dovevano essere rigorosamente bianchi e semplici, e non lavorati artificiosamente. Mai come in questi giorni di carnevale, “l’abito doveva fare rigorosamente il monaco”.

La situazione era abbastanza spinosa. Cosa avveniva? Nei conventi femminili, le educande, guidate dalle monache, si travestivano da preti, combinandone di tutti i colori. A Putignano, nel 1732, nel  monastero di san Benedetto, intervenne padre Alfonso de Liguori, che lo benedì, e fece esporre un’immagine dell’arcangelo Raffaele.

Sembrava che in questi conventi ci fosse il demonio, venivano denunciate strane apparizioni di luci e fuochi, episodi di spiritismo. Intervennero gli esorcisti. Finchè c’erano prelati in grado di farsi valere, come il famoso gesuita Domenico Bruno, la situazione si appianò ma, dopo la sua morte, nel convento delle Carmelitane Scalze di Putignano ricominciarono le apparizioni… dei “demonj”.

Il Carnevale era una tradizione trasgressiva che i divieti non riuscirono a bloccare, sebbene la Chiesa cercasse di creare un’alternativa alla festa profana. Ci fu l’intervento dei Gesuiti che istituirono i “carnevaletti”, una sorta di 40 ore posizionate nei giorni in cui il Carnevale impazzava, dalla domenica al martedì grasso. Le chiese divennero una sorta di apparato teatrale, con luci e soavissime musiche. Si organizzavano bellissime processioni, si sparavano razzi, in grado di attirare più gente possibile.

A Lecce, negli ultimi tre giorni di carnevale, ritenuti quelli più pericolosi,  tutti i confratelli della congrega dei gentiluomini, con torce accese in mano, accompagnavano il Santissimo Sacramento, con il concorso di tutta la città. I Gesuiti lo facevano per attirare più gente possibile, perché in tali giorni essa “correva sfrenatamente dietro al peccato e alle lascivie del mondo”.

A Molfetta, a metà Settecento, il vescovo Orlandi fece l’ostensione delle reliquie del patrono Corrado dal 9 al 16 gennaio. Fece anche esporre il Santissimo Sacramento per tutto il periodo di Carnevale. Cessarono i “balli infami” e i giochi, e le chiese si riempirono di gente.

Ma i vescovi non riuscivano a contenere il fenomeno, tant’è vero che a Molfetta, prima monsignor Fabrizio Antonio Salerni nel 1736, e poi mons. Celestino Orlandi nel 1757 minacciarono con un editto di scomunicare chi ballava scandalosamente. In questo caso ci fu l’intervento dell’Università di Molfetta che inoltrò un ricorso (firmato dal marchese Brancone)  a Napoli. Il vescovo fu invitato a  precisare quali fossero questi balli licenziosi.  Il vescovo li descrisse minuziosamente, uno a uno, in una relazione intrigante da leggere.

C’erano gli scelleratissimi balli del “zinsitto”, “dell’ignudo” e della “stoccata”. Il primo consisteva in una danza scandita dai comandi del maestro di ballo che, “dopo aver fatto disporre dietro di sé alternativamente uomini e donne” comandava loro di assumere posizioni “sempre  più sconce e disoneste” (petto a petto, culo a culo, faccia a faccia, bocca a bocca). Nel secondo, il maestro di ballo ordinava a uomini e donne di spogliarsi lentamente nel corso delle danze che  spesso si concludevano al buio, con una sorta  di caccia alla donna, “qualche volta totalmente alla nuda”, al grido di “chi la trova, la trova!”. Nel ballo della “stoccata”, si simulava un duello tra un uomo e una donna. A perdere era sempre la donna che, colpita, cadeva per terra e veniva soccorsa dal cavaliere che se la portava a letto, tra gli applausi e le grida sconce e “stomachevoli” di tutti i presenti.

“Indecenti” erano considerati, da monsignor Orlandi, i giochi dell’anello, del tavolone, del confetto, ecc. In tutti questi balli i partecipanti “toccavano” nelle zone sensibili, suscitando grande scandalo da parte di chi andava lì, pensando di partecipare –  come sostiene il vescovo – a balli innocenti.

Il gioco dell’anello consisteva nel passare un anello a tutti i partecipanti che si mettevano in circolo, tenendo le mani aperte e posate sul grembo. Il caposala vi posava l’anello e c’erano licenziose “toccate e fughe”.

C’è la descrizione di un altro gioco, quello dei confetti, che venivano gettati fra i seni delle gentildonne e, per riprenderli, il maestro di ballo doveva necessariamente palpeggiarle.

Erano balli e giochi decisamente licenziosi, che il vescovo Celestino Orlandi non poteva permettere nella sua Diocesi, perché costituivano fonte di eccitazione erotica per connubi proibiti talvolta favoriti dalle madri che volevano accasare le figlie in età da marito. Numerosi erano gli aborti, se il matrimonio riparatore veniva negato dai seduttori che le avevano ingravidate, durante le pazze serate “dell’ultima Festa”. Numerose erano le ragazze che, esattamente dopo 9 mesi dal Carnevale, mettevano al mondo dei neonati concepiti in quelle feste, e che venivano deposti nelle ruote dei conventi o “esposti” sui sagrati delle chiese.

Pietro Sisto, infine, cita un articolo dal singolare titolo “La vendemia del Diavolo”, pubblicato nel 1938 da “Vita Cattolica”, periodico ufficiale dell’Archidiocesi di Manfredonia. L’editorialista, dopo aver ricordato che Santa Caterina da Siena, parlando del Carnevale, esclamava tra i singhiozzi: «Oh che tempo diabolico!», si sofferma a descrive cosa avveniva nella diocesi sipontina “nei giorni detti del Carnevale”: «Mentre la Chiesa richiama i cristiani a considerare la tristezza, i patimenti e la morte del Redentore, molti di essi si danno alla pazza e sfrenata allegrezza e ai disordini. Tanti, coi loro peccati, rinnovano la passione la crocifissione di Gesù!(…) Che avviene infatti in questi giorni nelle sale da ballo? Giovanetti rabbiosi, ragazze frenetiche non sanno rinunciare al turpe divertimento del ballo. Passioni roventi che si sviluppano e ardono; affetti pravi che si iniziano; mode turpi, nudismo, abbracciamenti disonesti che si fanno; peccati che si consumano nel bollore della danza e negli agitati ritrovi notturni; tresche che si svolgono; onore che spesso si perde; malizie che s’imparano; pericoli fisici: contatti di membra, sudori, fiati ecc., facile comunicazione di mali contaggiosi (sic) tanfo ributtante… ».

E si chiede: “Come pretendono, poi, certi cristiani di regnare con Gesù Cristo. se vivono da pagani, o un giorno con Cristo e un giorno col Demonio?».

Teresa Maria Rauzino
pubblicato sul quotidiano “L’Attacco” del  4/03/2011

Carnevale in Puglia, nel Gargano e a Peschici

Il Carnevale ha rappresentato per secoli un’opportunità di protagonismo popolare, ossia un momento fondato sulla necessità antropologico-morale di democrazia, libertà e uguaglianza espressa dalle classi sociali subalterne, che in tal modo manifestavano non solo la loro libera creatività ma anche la propria opposizione nei confronti del potere politico, ecclesiastico ed economico. E’ questa una delle idealità filosofico-civili che sono alla base delle tradizioni popolari carnevalesche italiane ed europee. Ovviamente, nel Mezzogiorno d’Italia, e in particolare in Puglia e nel Gargano, le usanze e il linguaggio del Carnevale trovavano in quest’ideale il proprio fondamento, com’è emerso chiaramente nel corso del convegno dal titolo “Il Carnevale com’era. Tradizioni carnevalesche pugliesi, garganiche e peschiciane”, organizzato dal Centro Studi Storici “G. Martella” e svoltosi nella sala consiliare del Comune di Peschici.
Il prof. Matteo Siena della Società pugliese di Storia Patria, ha spiegato che il Carnevale garganico di un tempo era un divertimento di massa creato dalla gente più umile. “Il maggior protagonista del Carnevale nei paesi del Gargano – ha sottolineato Siena – era il popolino che non aveva molti soldi da spendere. Nei tempi passati ognuno si costruiva la maschera del Carnevale su misura, utilizzando vecchi abiti. I giovani si organizzavano nelle cosiddette ‘compagnie’ e allestivano di tanto in tanto carri allegorici. Ogni ‘compagnia’ aveva poi un proprio complesso musicale”.
“Durante il periodo del Carnevale – ha continuato Siena – erano inoltre recitati agli angoli delle strade i ‘testamenti’, vere e proprie satire che avevano lo scopo di denunciare le leggi ingiuste e le angherie dei datori di lavoro, di mettere in ridicolo le organizzazioni politiche e, più in generale, di segnalare i mali morali e i soprusi che angustiavano la collettività”.
La prof.ssa Teresa M. Rauzino ha evidenziato le simbologie e gli aspetti antropologici che hanno accompagnato le tradizioni del Carnevale in Puglia. “Quattro – ha detto la Rauzino – sono gli animali che rappresentano la ritualità del Carnevale pugliese: l’asino, il maiale, il tacchino e l’orso. Quest’ultimo simboleggiava il risveglio della natura. ritroviamo poi nel Carnevale pugliese miti propiziatori risalenti all’antica Grecia, come pure il rovesciamento dei ruoli sociali”.
Fin dal Medio Evo, poi, i vertici del potere ecclesiastico pugliese non videro di buon occhio il Carnevale. “Le gerarchie ecclesiastiche – ha affermato a tal proposito la Rauzino – si opposero fermamente allo spirito contadinesco alla base del Carnevale e intervennero con vari divieti, in cui, ad esempio, si proibiva ai preti e alle suore di partecipare ai riti carnevaleschi. Nonostante ciò, sacerdoti, chierici e suore prendevano ugualmente parte ai divertimenti carnevaleschi; le suore e le novizie, in particolare, nei conventi si travestivano da preti e ne combinavano di tutti i colori. A partire dal Medio Evo – ha proseguito la Rauzino – i Vescovi pugliesi pubblicarono veri e propri editti contro il Carnevale e cercarono di porre fine ai balli carnevaleschi, considerati sconci e osceni, e visti come una fonte di eccitazione erotica; in quelle danze, infatti, non poche vergini finivano con l’essere ingravidate dagli uomini. Un Arcivescovo pugliese cercò addirittura di bloccare un corteo carnevalesco che portava, come in processione, la statua di Priapo, che rappresentava l’istinto sessuale. Il Carnevale restò comunque una tradizione trasgressiva che non era possibile soffocare”.
La prof.ssa Grazia Silvestri si è invece soffermata sul Carnevale a Peschici nella prima metà del Novecento, ponendo in risalto i valori morali che sottendevano la tradizione carnevalesca peschiciana di una volta. “In passato – ha dichiarato a tal proposito la Silvestri – c’era una solidarietà, un’unione tra i peschiciani che al giorno d’oggi non c’è più. La gente si ritrovava nelle case dei parenti e degli amici per festeggiare e per ballare valzer, mazurke, polke e tarantelle. Si determinava così un momento di festa che esorcizzava la fame e la miseria di un tempo”.
Nel corso del convegno sono intervenuti anche la prof.ssa Lucrezia D’Errico (che ha analizzato la Zeza-Zeza, un canto popolare peschiciano importato però dalla Campania), il dott. Francesco D’Arenzo (che ha illustrato il percorso del corteo carnevalesco lungo le strade di Peschici nei giorni 6 e 8 marzo prossimi) e il responsabile della Biblioteca comunale sig. Elia Salcuni (che ha descritto il rito del processo e della morte di Carnevale nella tradizione peschiciana).
Successivamente gli studenti del liceo scientifico di Peschici, riuniti nella compagnia teatrale “Ars Nova” e diretti dal dott. Stefano Biscotti, hanno magistralmente recitato la Zeza-Zeza in vernacolo peschiciano.

Gianluigi Cofano
nel Gruppo FB Bibliotecando

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