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Le origini e la fine del tarantismo

L’Italia non sarebbe uno stivale senza il tacco della Puglia, la regione più lunga e pianeggiante della penisola, tutta protesa verso Oriente. E non sarebbe la stessa senza lo sperone mistico del Gargano, l’angolo estremo di un triangolo di religiosità paneuropea che unisce Santiago di Compostela a Saint Michel in Normandia, l’Atlantico al Mediterraneo. La Puglia è stata considerata per millenni un finis terrae, la periferia di un continente da sfruttare grazie al grano delle pianure e all’olio dei suoi ulivi, centro di emigrazione laboriosa che ha contaminato della sua fatica l’Italia, l’Europa e il mondo intero.Una terra “matria”, con salde strutture familiari e un solido
matriarcato, in cui la donna è stata da sempre protagonista perché
l’uomo era costretto a emigrare per lunghi anni o durante la stagione
della transumanza. Una caratteristica di questa regione è anche quella
di avere conservato più a lungo che altrove alcune manifestazioni
folkloriche in cui elementi magici e religiosi hanno convissuto insieme.
Ciò è avvenuto perché la Puglia è luogo di frontiera e di continuo
scambio tra terra e mare, tra agricoltori, pastori e pescatori, ma anche
campo d’invasione e d’accoglienza, di scontri e d’incontri che hanno
prodotto un meticciato culturale fondato su una stratificazione
complessa di civiltà: si è giunti sino ai giorni nostri partendo dalle
antiche popolazioni indoeuropee degli Apuli e passando dalle
colonizzazioni greche, le conquiste romane, i domini bizantini,
longobardi, saraceni, normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnoli,
austriaci e francesi.
Ciò ha fatto di questa terra uno straordinario laboratorio
etno-antropologico che rappresenta in scala una pregnante metafora del
destino italiano. Era il 1961, l’unità nazionale festeggiava il suo
secolo di vita, quando Ernesto De Martino diede alle stampe La terra del
rimorso e raccontò la storia di un’antichissima tradizione pugliese,
quella dei tarantolati.
Per l’illustre antropologo la terra del rimorso era la Puglia, ove
alcuni individui, prevalentemente di sesso femminile, si ritenevano
morsi e ri-morsi dalla tarantola e riuscivano a liberarsi dal veleno
solo grazie a un complesso rituale esorcistico a base di musica e danze
(la pizzica). Di solito il morso del ragno era immaginario e costituiva
il pretesto per curare disturbi di origine psicosomatica che nel
Seicento si sarebbe chiamato «umor malinconico», nell’Ottocento
«esaurimento nervoso» e nel Novecento «depressione».

La danza con le spade, antica forma di danza forse riferibile al tarantismo

In altri casi l’avvelenamento era effettivo perché la tarantola,
nascosta nei covoni di fieno, colpiva soprattutto al tempo della
mietitura, e in particolare le donne che si recavano ai campi per
aiutare gli uomini, provocando stati di tremore e persino convulsioni.
La comunità smetteva di lavorare e attendeva alla “tarantata” suonando
incessantemente i tamburelli e danzando a ritmo vorticoso per liberarla
dall’avvelenamento. Secondo l’interpretazione di De Martino il morso
della taranta costituiva la rottura di un ordine prestabilito, che il
rito contribuiva a ripristinare configurandosi come una forma di
protezione istituzionalizzata, il segno di un “male culturale”. Il rito
aveva una componente terapeutica prevalente, ma anche una dimensione
erotico-sessuale (ricordata in molti canti pugliesi) in cui entravano in
gioco le coppie ordine/conflitto, salute/malattia all’interno di un
contesto agricolo segnato dalla povertà.
L’origine di questa tradizione è incerta: secondo De Martino
risalirebbe al Medioevo e alle esperienze dei crociati costretti
effettivamente ad affrontare le punture di animali velenosi. Per altri
studiosi si dovrebbe risalire alla diffusione, del movimento dei
Baccanali nel II secolo a. C. e alle cerimonie della possessione
dionisiaca. Nonostante la mancanza di documenti, è sicuro che siamo in
presenza di resistenze culturali risalenti a uno scenario mitico-rituale
comune all’area del Mediterraneo e dell’Asia minore che ha interessato
anche la Puglia in tempi remoti trovando un contesto economico-sociale
favorevole all’attecchimento.
All’interno di questa complessa e discussa stratificazione
antropologica si inserisce l’assimilazione della tradizione dei
tarantolati operata dal cristianesimo grazie al culto di san Paolo e
documentata a partire dal XVI secolo. La Chiesa, consapevole
dell’origine pre-cristiana del rito, scelse la strada del sincretismo,
convogliando i tarantati dagli spazi privati alla cappella di San Paolo a
Galatina e così disciplinando la cerimonia attraverso la sua
calendarizzazione il 29 giugno. Essa è stata progressivamente
trasformata in una richiesta di grazia al santo, ma ha conservato la
dimensione musicale e danzante nel percorso di guarigione che avrebbe
un’origine autonoma.
La scelta di San Paolo non sorprende in quanto negli Atti degli
Apostoli si racconta che egli, quando si trovava a Malta, fu morsicato
da una vipera (non da un ragno), ma riuscì a sopravvivere. Da questa
tradizione evangelica si diffusero particolarmente in Puglia e in
Sicilia i cosiddetti “sanpaolari”, i quali erano in grado di curare il
morso del serpente con un’acqua miracolosa o con la terra di Malta, ma
non con l’esorcismo coreutico-musicale che dovrebbe costituire la forma
di una più antica matrice culturale di origine dionisiaca. Siamo dunque
in presenza di un rito composito dove sacro e profano, elementi
ecclesiastici e pagani, hanno continuato a vivere insieme grazie
all’impegno assimilatorio del cristianesimo come religione nella storia.
Sempre nel 1961 il poeta Salvatore Quasimodo, nel commentare un
documentario sui tarantolati pugliesi a cui aveva collaborato anche De
Martino, ricordava come «questa è la terra di Puglia e del Salento
spaccata dal sole e dalla solitudine dove l’uomo cammina sui lentischi e
sulla creta. Scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli . È terra
di veleni animali e vegetali: qui esce nella calura il ragno della
follia e dell’assenza, si insinua nel sangue di corpi delicati che
conoscono solo il lavoro arido della terra, distruttore della minima
pace del giorno. Qui cresce tra le spighe di grano e le foglie del
tabacco la superstizione, il terrore, l’ansia di una stregoneria
possibile, domestica. I geni pagani della casa sembrano resistere ad una
profonda metamorfosi tentata da una civiltà durata millenni». Il suo
lirismo populista descriveva una Puglia che allora c’era, ma che oggi
non esiste più.

…ancora la spada…

Ancora nel 1974, nel giorno della festa dei santi Pietro e Paolo,
nella cappella di Galatina si presentò una dozzina di “tarantati” che si
erano dimezzati rispetto ai tempi dell’indagine di De Martino e che
oggi sono scomparsi. La Puglia da terra agricola è diventata negli
ultimi cinquant’anni una società prevalentemente post-industriale e
terziaria: le migliori condizioni di vita, la mutazione delle strutture
familiari, il cambiamento della condizione della donna hanno rotto il
telaio magico-rituale che funzionava a pieno regime dentro una comunità
con tempi, ritmi e stili di vita contadina.
Insomma, se sono scomparse le lucciole di Pier Paolo Pasolini è pur
vero che gli insetticidi hanno cambiato i nostri ecosistemi agricoli
facendo sparire anche le tarantole, e per nostra fortuna. Oggi il
tarantismo è svanito come le grandi storie di frustrazione economica di
cui è stato millenario argine terapeutico e di quell’esperienza è
rimasto solo “La Notte della Taranta” che ha spostato il fuoco
dell’attenzione sul terreno dei consumi artistici e turistici in nome
della riscoperta della tradizione tradita.
Dei tarantolati dunque non restano che la musica e un sentimento di
sincretismo, contaminazione e trasformazione continui che sono il sale
di ogni storia possibile. La morale della favola è che gli ultimi
cinquant’anni di storia italiana hanno costituito un sicuro vantaggio
per questi popoli costituendo – e vogliamo rispolverare un termine
caduto troppo superficialmente in disuso – una fonte di progresso
materiale, civile e morale. Il mito della tarantola ha resistito fin
quando quelle terre sono state avvolte in una miseria senza speranza e
riscatto, costruite intorno al latifondo e coltivate da braccia che si
vendevano a giornata per un tozzo di pane. Oggi i nipoti di quei
contadini tarantolati dalla fatica ballano per lo più immemori al ritmo
della pizzica sulle note raffinate di Ludovico Einaudi, mescolati ai
giovani di tutta Europa che li possono raggiungere con voli low cost
grazie ai modernissimi aeroporti di Brindisi e di Bari. Il ragno maligno
è stato sconfitto, ci saranno di sicuro mille altri veleni, vecchi e
nuovi, da neutralizzare, ma è bene ricordare che di fare l’Italia ne è
valsa la pena.

Fonte: Ilsole24ore

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