Un paesaggio a noi vicinissimo ma che non è più riconoscibile. La
dinamica che ha innescato il degrado è stato l’abbandono, specialmente
nella gran parte dei paesaggi agrari delle aree collinari e montane; gli
altri, quelli delle fasce costiere o pianeggianti, sono stati
cancellati dall’urbanizzazione
Ci è facile associare l’archeologia a luoghi taciuti dal tempo come è
altrettanto facile immaginare lo studio archeologico rivolto solo a
mondi perduti, civiltà misteriose e ruderi nascosti, custodi di preziosi
tesori, che solo un novello Indiana Jones può raggiungere. Eppure
esiste anche «un’altra archeologia», quella più vicina alla realtà, che
vive e interpreta il passato scomponendo il presente. Questa archeologia
si nutre di luoghi a noi vicini, ma non per questo meno sorprendenti.
Ricostruire paesaggi è la filosofia dell’Archeologia del Paesaggio,
nuova disciplina che la si trova oggi in diversi corsi di laurea
(facoltà di Lettere).
Attraverso la lettura e l’interpretazione del paesaggio attuale si può
ricostruire la storia del territorio, sia sotto il profilo fisiografico
sia, ovviamente, storico. Si ricorre a cartografia, fotografia aerea,
toponomastica, archeologia, fonti scritte, testimonianze orali. La
ricostruzione non è affatto facile se l’oggetto è il paesaggio:
vegetazione, usi del suolo, strutture produttive, forme colori e, come
si sa, il paesaggio non lascia fossili. L’archeologo classico scava,
l’archeologo del paesaggio deve saper leggere e interpretare ciò che è
possibile decifrare dai paesaggi odierni o attuali. Un fronte di ricerca
di questa nuova disciplina sta operando nella ricostruzione dei
paesaggi agrari, quelli che hanno caratterizzato l’Italia agricola,
l’Italia di non più di un cinquantennio addietro, ma che hanno assunto
oggi i caratteri di paesaggi agrari storici. Ricostruire questi paesaggi
non è affatto facile e forse è più facile ricostruire un paesaggio di
epoche lontanissime che questi paesaggi che tra l’altro riguardano il
nostro passato prossimo. Un paesaggio dunque a noi vicinissimo ma che
per ragioni note (esodo agricolo, rurale) non è più oggi riconoscibile.
La dinamica che ha innescato il loro degrado è stato l’abbandono, almeno
sulla base di quanto si è verificato nella gran parte dei paesaggi
agrari italiani, quelli ad esempio delle aree collinari e montane (il
75% della superficie territoriale); gli altri, quelli delle fasce
costiere o pianeggianti, sono stati cancellati dall’urbanizzazione.
Speciali Indiana Jones
La difficoltà nel ricostruirli sta nel livello di degradazione degli
elementi strutturali che questi paesaggi hanno raggiunto che in molti
casi è totale. Un paesaggio agrario è strutturalmente un paesaggio
vegetale: colture arboree, siepi, frangivento, campi di colture
orticole, pascoli; nel momento in cui viene meno la pratica agricola
questa componente del paesaggio si cancella in brevissimo tempo. Restano
in alcuni casi gli alberi, niente invece di colture erbacee o
soprattutto è irreversibilmente cancellato il disegno (campi, strade,
ecc.) impresso sul territorio, importante per capire o ricostruire la
funzionalità del sistema.
I più tenaci restano gli insediamenti (case, muretti a secco), spesso
fatiscenti, o informi cumuli di pietre. Gli scenari con i quali si
caratterizzano sono diversi: in alcuni casi la percezione è quella di un
luogo abbandonato, non più vissuto, in altri diventa persino difficile
immaginare che un tempo sono stati spazi sociali, di intense attività
produttive ed economiche. Si colgono presenze di erbacce, rovi, che
dominano, elementi di un nuovo paesaggio vegetale, spontaneo,
(rinaturazione) che ha preso il posto di quello creato un tempo e
mantenuto per secoli dall’uomo con i suoi alberi, i suoi campi di grano,
orti. La vegetazione naturale invade, si espande come un plasma su ogni
cosa seppellendo anche quei pochi elementi strutturali che hanno
animato di uomini e animali il paesaggio. È su questa «coltre» di
vegetazione spontanea che anche l’archeologo del paesaggio deve
«scavare»: a volte si trovano resti di case rurali, o vecchi alberi da
frutto all’interno di boschi, tale è stato lo sviluppo della vegetazione
spontanea. Scenari di questo tipo si possono osservare nel Gargano,
anzi segnano oggi i tratti salienti del suo paesaggio. È qui che un
archeologo del paesaggio trova fertile terreno per le sue indagini.
Un’occasione straordinaria per ricostruire il paesaggio agropastorale,
fisso, immutabile per secoli e cancellato in fretta dalla rinaturazione
innescata dall’abbandono colturale che parte non più di cinquant’anni
fa. Ricostruirlo non è pura ricerca scientifica, ma è necessario oggi
per non perdere memoria (patrimonio di conoscenze, valori, ecc.) del
nostro passato prossimo. Il teatro però è ancora percepibile:
un’imponente, rigogliosa e diffusa vegetazione forestale, tra cumuli di
pietre, invasi che raccolgono acqua piovana, stalle, grotte, ruderi,
file di macere che delimitano sentieri, tratturi che si intramano in
ogni luogo, segni di un abbandono frettoloso e ormai lontano, ma non
troppo. È ancora vivente parte di quella generazione che ha scritto
l’ultima sceneggiatura. Probabilmente queste storie non sono state
abbastanza raccontate.
La trama di questa sceneggiatura ruota intorno alla terra, al suo
diritto di essere coltivata ma quasi per volere di Dio, appartiene a
Baroni e Chiesa. Una terra, risorsa fondamentale per un economia
agricola, che è stata per lungo tempo un vero e proprio campo di
battaglia. Su un fronte una moltitudine di disperati, dall’altro, i
padroni, la polizia, e spesso anche l’esercito.
Un anziano oggi portato qui ne rimarrebbe traumatizzato, non
ritroverebbe, il mosaico di colori dei suoi campi di grano, di mais, di
orti, di alberi, i suoi sentieri, se non nella sua memoria: la
vegetazione naturale gli ha cancellato tutto. È evidente la sua angoscia
come chi si trova in uno scenario devastato da una catastrofe, un
epidemia, una bomba atomica. Una civiltà scomparsa, di cui lui ultimo
sopravvissuto. Quando vi passeggerete a raccogliere funghi o more vi
troverete spesso di fronte a ruderi, trasformati a cumuli di pietre e
poi ancora pietre in lunghe e geometriche file di muretti a secco
(macere) che dominano la scena; in tanti luoghi la stessa rinaturazione
non riuscirà mai a cancellare l’intricata rete di muretti a secco che si
disegnano su ampie superfici pietrose interne di Carpino, Cagnano,
Sannicandro, o ciò che è ancora più visibile a San Giovanni Rotondo, San
Marco in Lamis o Rignano Garganico.
Mezzane, parchi e difese
Perché tante macere? O cosa delimitano? Ovviamente limiti di proprietà
ma soprattutto le diverse destinazioni d’uso della terra, una vera e
propria regimazione che ci porta dritti al feudalesimo. Tutta la terra
era, come è noto, del feudatario (Baroni, Principi) ma per capire il
tipo di organizzazione nell’uso messo in atto, possiamo partire da
alcuni toponimi che ricorrono in una qualsiasi carta topografica,o che
ancora sono radicati nella memoria di anziani che sanno ancora
identificare con termini come mezzane, parchi diversi luoghi. Il
significato non è facile ricostruirlo, soprattutto oggi: mezzane si
trovano specialmente nel Tavoliere ma lo stesso toponimo si ritrova
anche nel Gargano, conservando sempre la stessa funzionalità per cui il
ruolo della macera era quello di «chiudere» una parcella per destinarla
al pascolo. Ma la mezzana del Gargano aveva anche una precisa
localizzazione, nella toponomastica infatti si trovano solo nella fascia
costiera, in pratica in luoghi con un clima meno rigido come quello del
Gargano interno.
I toponimi di parchi invece si trovano nelle parti interne o alte, più
fresche, del Gargano. Tra parchi e mezzane vi è dunque una differenza di
ubicazione ma la destinazione è identica; nei primi si praticava il
pascolo nei mesi estivi, almeno fino ai primi di luglio qui era
possibile trovare per ragioni bioclimatiche pascoli ancora verdeggianti;
nelle mezzane si praticava il pascolo nei mesi invernali. Nell’arco
dell’anno in pratica, parchi e mezzane erano le tappe di una transumanza
interna al Gargano, sul modello delle più tipiche transumanze che
spostavano gli animali dalle zone fredde a quelle più miti durante i
mesi invernali, per farvi poi ritorno durante l’estate. Parchi e mezzane
erano superfici spesso rocciose, di qui la vocazione al pascolo
principalmente, ma in tanti altri casi invece circoscrivevano (con
muretti a secco) superfici macchiose e boschive e quindi con
potenzialità di essere messi a coltura.
Vi è, infine, un altro toponimo ricorrente sempre nelle cartografie
relative al Gargano ed è quello di difesa, istituzione a cui ricorrono
Baroni o Principi o gli stessi Comuni per difendere appunto determinati
usi (pascolo, caccia) impedendone a chiunque l’accesso (delimitate da
siepi oltre che da muretti a secco), poiché con l’istituzione delle
difese veniva meno lo stesso diritto di uso civico garantito solo nei
Parchi e nelle Mezzane. Qui si potevano infatti raccogliere (usi civici)
legna da ramaglie, prodotti spontanei, quali i funghi, pur se per un
periodo limitato alla stagione estiva (da giugno a settembre); si poteva
ottenere anche il diritto di poter seminare. Nel resto dell’anno si
ripristina l’uso pastorale.
Il teatro di questo paesaggio che vogliamo ricostruire è un Gargano
montuoso, modellato da valli, valloni e doline, aspro, arido, boscoso
sostanzialmente, con schiarite di pietraie, rocce: la scenografia è
rappresentata oggi da reperti pur se esigui come ruderi e macere; la
sceneggiatura, è stata scritta con la fatica, il solo lavoro senza
capitali. Il padrone dava la terra, ed era già tanto, concedeva l’uso
delle erbe, la rappresentazione, l’unica possibile, un modello pastorale
regimato con l’uso della macera. Così, le pietre, quelle ordinate nelle
lunghe macere possono cominciare a raccontare delle massacranti fatiche
di spietramento per creare confini, superfici coltivabili, possessi.
Almeno fino alla prima metà del Settecento il promontorio era
fondamentalmente boscoso, le fasce costiere, da Lesina a Isola Varano e
ben oltre (attuale Lido del Sole) erano soggette a impantanamenti
continui, di qui malaria, cattivissima qualità dell’aria; paludi si
formano anche da Calenella a Vieste, tra le numerose calette costiere,
per cui la parte utilizzabile del Gargano rimaneva circoscritta
all’acrocoro, ove regnava il bosco e piccole schiarite su luoghi
rocciosi, di qui la facile e comoda affermazione, per i padroni, del
modello pastorale. Qualche capra o pecora apriva possibilità di
sostentamento a pochi nullatenenti nei limiti ovviamente imposti dagli
allevamenti bovini dei Baroni che dominavano incontrastati sulle
superfici boscate. Un altro possibile attore è così il pastore con
dieci, venti capre che deve ricorrere al pascolo itinerante,
giornaliero, per ricavarne formaggi e latte e capretti, dopo aver pagato
con questi l’uso dell’erba al padrone.
Sulle mezzane si avviano le prime colonizzazioni fondiarie che puntano
all’impianto dell’uliveto ma con percorsi, in alcuni comprensori,
particolari o strategici; non si dissoda la terra ma si attua
semplicemente un esbosco che risparmia gli olivastri i quali poi
verranno innestati tutti a olivo da olio. Attraverso il semplice innesto
si formeranno così estesi uliveti, quelli che è possibile ancora oggi
osservare da Cagnano fin in prossimità delle pianure di Apricena.
L’allevamento non poteva essere sacrificato, la soluzione dell’innesto
trasforma significative boscaglie mediterranee (olivastro, lentisco,
fillirea) in uliveti pascolabili, utilizzabili dagli inizi della
primavera agli inizi dell’autunno per garantire poi le operazioni di
raccolta delle olive. Questi particolari uliveti costituiranno una
distinta qualità nel Catasto fondiario e saranno distinti come «pascoli
olivetati».
Il modello pastorale che assoggetta, pur se per periodi limitati, le
mezzane o gli stessi parchi, trova nel bosco la risorsa foraggera
fondamentale; il bosco garantiva infatti, pur in piena calura estiva, la
disponibilità di erbe e arbusti del sottobosco. Tra gli allevamenti
acquisisce forza quello bovino; i bovari, gli allevatori, sono le figure
che dominano controllando gran parte della superficie pascolabile. In
un territorio così organizzato l’unica libertà di uso diverso delle
risorse naturali, si realizzava con gli usi civici, un diritto per la
gleba («folle» di uomini e donne); un uso che perpetua anche nel Gargano
scenari neolitici, di uomini che vivono principalmente con la raccolta
di prodotti spontanei. La concessione di questi diritti evidentemente è
strategica poiché garantirà privilegi ai feudatari e dall’altra un
controllo e, pur se in parte, una pace sociale diffusa e duratura.
Mutamenti socio-economici
Questo disegno sul territorio si apre a prospettive di cambiamento solo
con l’occupazione francese che pur nella loro breve presenza avviano o
lasciano sperare radicali mutamenti socio-economici attraverso
l’emanazione (1806) della nota Legge dell’eversione della feudalità.
L’intento è di smantellare definitivamente il sistema feudale e aprire
il promontorio alla trasformazione fondiaria, attesa da sempre,
assegnando ai cittadini quote (quotizzazioni) di terra del feudatario.
Il percorso non sarà facile, è in primis ostacolato dai stessi Baroni;
del resto è la prima volta che si profila la possibilità per tutti di un
diritto alla terra, questione di giustizia sociale che pertanto è
terreno di tensioni ma anche di opportunismi e prepotenze.
L’agonia del sistema feudale, infatti sarà lunghissima e probabilmente
non morirà mai se l’epilogo risulterà una semplice sostituzione del ceto
dei padroni. L’intento è nobilissimo: tutti i terreni del feudo sono
trasferiti ai Comuni che devono poi essere i responsabili delle
quotizzazioni; le terre diventano «universali», si possono estendere gli
usi civici a superfici più ampie, ma l’attesa più grande è quella,
finalmente, di poter accedere al diritto di coltivare la terra.
Il baronato non è disposto facilmente a cedere diritti di proprietà
consolidati nei secoli; pur se si ridimensiona la figura del Barone,
rimangono gli eredi, i casati, ancora proprietari di superfici
considerevoli che continuano a pretendere terraggi (pagamenti per l’uso
delle terre). È infinita in proposito la casistica giudiziaria delle
tensioni tra Baroni, Principi, Duchesse da una parte e Comuni dall’altra
che puntano a garantire alla collettività almeno gli usi civici.
I comuni si troveranno a gestire consistenti patrimoni terrieri
nell’attesa delle non facili concessioni a coloni o a estendere il più
possibile il diritto di uso alla collettività; saranno meglio conosciute
come terre comunali e ancora oggi quasi tutti i comuni garganici ne
possiedono superfici considerevoli, segno evidente che le quotizzazioni
non furono mai ultimate. Del resto con questi patrimoni i comuni si sono
garantiti nel tempo entrate importanti.
Le quotizzazioni non si rivelarono facili, non da trascurare le tensioni
tra mondo pastorale che vuole lasciare le terre libere al pascolo e
mondo contadino che ha interessi, sacrosanti, di potere dissodare,
parchi, mezzane e metterli a coltura. I coloni poi hanno rappresentato
una parte esigua degli interessi agricoli, dominante era una realtà
diffusa di bovari (allevatori) e pastori itineranti. Ma il bisogno di
terra da coltivare era altrettanto forte, per ragioni alimentari, per
produrre grano soprattutto, e garantire così sostentamento ad una
comunità che con il modello pastorale faticava a sopravvivere.
È vero però che se le quotizzazioni faticano ad attuarsi, è anche per
negligenza ma soprattutto per volontà in molti casi degli stessi
amministratori comunali che non l’hanno certamente favorito. Le terre
comunali si espongono così a occupazioni, abusi, usurpazioni di ogni
sorta.
Su di esse agiscono due fronti di interessi: da un lato quello degli
stessi amministratori, di professionisti emergenti, spesso figli di
casati (avvocati, notai, preti); dall’altra una comunità che non ha
niente, tra la quale uno sparuto gruppo di coloni. Quest’ultimo fronte
troverà spesso solo briciole. L’impegno di dissodare le terre feudali e
coltivarle con diligenza, senza limiti precisi era motivo sufficiente
per impossessarsene con la semplice delimitazione con muretti a secco o
fichi d’india, o siepi della superficie occupata; il tutto insomma
attraverso regole arbitrarie, o ad hoc, con delibere comunali,
sottaciute, incomprese o rese tali per la stragrande maggioranza delle
popolazioni garganiche.
In pratica si arriva alle concessioni attraverso percorsi di vera e
propria occupazione anche fisica delle terre, nei quali sono
protagonisti nuove figure quali professionisti, preti, amministratori,
resti di casati.
La maggior parte della terra così cambia solo padrone, ai baroni si
sostituirono i loro eredi (casati) e soprattutto nuovi borghesi agrari,
che nel Gargano si distingueranno come «galantuomini». Prende corpo
anche qui il modello dell’azienda agraria capitalistica, che si afferma
nel Tavoliere; non è la masseria dei di Sangro, dei D’alfonso (San
Severo, Torremaggiore, Apricena) o ancora dei Pavoncelli e Rochefoucauld
(Cerignola) che gestiscono migliaia di ettari (8.000 ettari i primi e
circa 4.000 i secondi) ma è comunque corposa (in media anche di 1.000
ettari) e in ogni comune del Gargano si affermano nuclei importanti. Il
modello pastorale, integrato alla cerealicoltura, troverà nella masseria
la forma dominante di organizzazione produttiva. È un’azienda, nel
Gargano così come nel Tavoliere, che riesce ad assorbire la stragrande
maggioranza (70/80%) della forza lavoro disponibile ma è in prevalenza
(anche oltre il 70%) costituita da salariati giornalieri per cui la
figura del bracciante vive in condizioni di massima precarietà. Nel
Tavoliere in alcune fasi produttive (mietitura del grano) la forza
lavoro disponibile è addirittura insufficiente, per cui scendono dal
Gargano migliaia di lavoratori.
Delle grandi concessioni feudali ai comuni non restano che briciole e su
di esse non potranno che concentrarsi gli appetiti sacrosanti della
povera gente per impossessarsi di un fazzoletto di terra da coltivare.
Si apre così un altro capitolo di occupazioni fisiche delle terre
comunali, che parte dalla prima metà dell’Ottocento e prosegue fino agli
anni 50 del Novecento, quando folle di uomini e donne avevano già
lasciato il Gargano (emigrazioni). Negli archivi di ogni comune
garganico vi sono cataste di verbali di arresto, multe, denunce, di
guardie, comunali, rurali, a povera gente sorpresa ad occupare terre
comunali.
Nelle campagne vige un clima poliziesco, guardie rurali a difendere la
proprietà dei comuni e quella dei privati che viene interessata a furti
di frutti, grano, animali. Ovvi e naturali soprusi di una comunità che
non ha niente: è costretta a rubare ramaglie, a tagliare qualche albero
per procurarsi un po’ di legna per riscaldarsi, pratica la caccia nelle
Difese; ruba pascoli ai bovari. Gli resta da raccogliere solo frutti ed
erbe spontanee, lumache, ricci di terra. Con i Galantuomini, tante
superficie perdono millenari usi civici che in ogni caso rappresentavano
importanti occasioni di sostentamento per la popolazione.
L’attesa di impossessarsi e poi riscattarne la proprietà delle terre
comunali è soddisfatta solo da uno sparuto numero di coloni che nella
seconda metà dell’Ottocento fa aumentare la superficie olivetata
(Vieste, Vico, Ischitella, Macchia, Mattinata), impianta vigne,
mandorleti e comincia anche a produrre reddito oltre che a ripagarsi le
fatiche.
I galantuomini nel frattempo sono diventati proprietari della parte più
cospicue delle terre feudali, dopo esserne stati per lungo tempo
semplici possessori o abusivi occupatori. Erano stati loro a mandare
spesso i loro garzoni, nullatenenti a loro asserviti a occupare terre,
chiudendole, con reti muretti a secco, esponendoli anche alla morte (le
guardie rurali sparano anche) o all’arresto, pronti poi a difenderli nei
tribunali. Così i galantuomini si sono impossessati di gran parte delle
terre feudali.
La piccola proprietà
Terreno di tensioni, tra pastori, coloni e nullatenenti sarà ciò che
resta, come innanzidetto, delle proprietà comunali. Le quotizzazioni,
del resto pur nell’ipotesi di una corretta applicazione non avrebbero
dato i risultati attesi: le quote di due tomoli (circa mezzo ettaro) per
ogni versura sottratta al feudo, sono del tutto insufficienti ad
avviare una ripagata attività agricola, resa ancora più gravosa
dall’assoluta mancanza di capitali, per cui una quota affatto
trascurabile di piccola proprietà contadina si costruisce con le
occupazioni fisiche delle terre comunali.
I ricordi sono ancora vivi negli anziani e sono ancora oggi
riconoscibili le terre comunali, quando non abbandonate, come si è
verificato nella maggior parte dei casi, trasformate a colpi di zappa e
piccone in verdi uliveti. Saranno i pochi esempi di attività o
intraprendenza della piccola proprietà contadina che cancellerà un po’
di quel paesaggio pastorale che storicamente si era intessuto sul suolo
garganico. Il bosco comunale è esposto su ogni fronte all’esbosco con
ritmi devastanti: si disbosca, si dissoda per intagliarsi fazzoletti di
terra da seminare, la fame è sempre alle porte; si disbosca anche nei
boschi dei galantuomini ma per trarre profitto dalla vendita di legname
(combustibile, costruzioni). Il nemus garganico si frammenta e si riduce
drasticamente, di qui i ripetuti appelli di Michelangelo Manicone
contro il devastante disboscamento messo in atto (1799)
Con l’attivismo di coloni e piccoli contadini nascerà una straordinaria
diversità di specie e colture agrarie, dal fico d’india al castagno; una
proprietà che pian piano intensifica le sue attività investendo con la
colonìa anche sulle terre dei galantuomini, che a loro volta troveranno
motivazioni, pur se in pochi casi, a investire nei processi di
trasformazione fondiaria.
Trova posto così nel Gargano un’azienda agraria media con salariati
anche fissi (Vico, Ischitella, Carpino, Sannicandro) con superfici
produttive considerevoli: a Vico quest’azienda (3%) su una superficie
territoriale di circa 13mila ettari detiene circa 10mila ettari. Ma
siamo ormai negli anni Cinquanta del 900, le porte dell’emigrazione sono
sempre aperte. Le fabbriche di Torino, Milano, offrono un irresistibile
richiamo a una classe di salariati, braccianti e garzoni: un salario,
sicuro e duraturo in alternativa ad una condizione umana delle campagne
che non era riuscita a vincere precarietà, fame e miseria.
La grande azienda perde forza lavoro, è in crisi nel quadro ovviamente
di una crisi che investe il settore a livello nazionale; sopravvive e si
rafforza invece la piccola proprietà contadina che produce ancora
ricchezza dal suo lavoro familiare, acquista via via scampoli della
grande azienda che così gradualmente si sfilaccia e perde di
consistenza. In realtà il fenomeno si avvia già agli inizi del 900;
molti, sono gli emigrati in America, sono coloni, legati ancora alla
terra; lavorano 5/6 anni, vivono in baracche con un obiettivo chiaro,
accumulare un po’ di dollari per tornare nel loro paese e comprarsi un
po’ di terra. Con l’acquisto, la piccola proprietà (favorita anche da
opportune leggi) si consolida, cresce ma deve far conto solo ed
esclusivamente sulla forza lavoro della famiglia. Manda i figli a
studiare prima a Monte S. Angelo (Liceo) e poi all’Università (Napoli,
Bari), il bisogno di riscatto è forte e si punta pertanto sui figli che
possono diventare avvocati, dottori… Ma inevitabilmente perderà la sua
integrità di azienda familiare.
Il riscatto, invece, della moltitudine di garzoni, braccianti, salariati
e nullatenenti, si realizza con l’emigrazione. Nel decennio 60/70 del
900 si spopolano le campagne, si spopolano gli stessi paesi. Quella
terra da secoli attesa non interessa più, anzi la si rinnega facilmente
come si rinnegheranno le proprie origini, per secoli mortificate,
segnate con termini ineluttabili: «cafoni», «garzoni». Un retaggio
culturale che si trasferisci ai figli, ai nipoti che legano tutto ciò
che significa campagna, terra o agricoltura a miseria e fame. Un
retaggio culturale che ha fatto perdere, ovviamente ogni consapevolezza
del potenziale produttivo (serbatoi di tipicità) di queste agricolture e
che probabilmente condizionerà per sempre ogni ipotesi di recupero e di
valorizzazione.
Nello Biscotti
Dottore di ricerca in Geobotanica
da Ondaradio.info
Siete i migliori mandatemi un po di WiFi grazie
Grazie del Brogger