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Le donne del Sud non sono solo Sole: fatte a mano

Racconto breve presentato al concorso Letterario “Il rovo” – Cagnano Varano 2013; nell’edizione 2012 il racconto presentato era intitolato “Voli acsetici”.

di Gianfranco Pazienza

(a Rosetta Pirro e a tutte le altre persone incontrate sul Garago, che amano e lavorano con passione per questo “terroir”; tutt’altro da chi, con la presunzione di possederlo, lotrascura.)

Foto di yuris010

Con le porte sempre aperte, ovunque protette da una tenda pesante, le voci fuoriescono ovattate; una mano scosta la rete e appare a metà il bel viso e un bel seno. Non mi chiede della presenza estranea, interroga senza parlare. A quello sguardo rispondo: cosa sono gli spicchi rossi? Pomodorini spaccati essiccati al sole, una parte della tela di Arcimboldo fatta di melanzane a fette, conserva essiccata di pomodoro, capperi, piante di basilico, prezzemolo, salvia e rosmarino, mazzetti di origano. Collane di carrube e variopinti pomodorini e peperoncini. Fichi e mandorle ad essiccare in cesti intrecciati di rami sottili; anche la pasta fatta a mano, piccole orecchiette di farina di grano duro, ingiallisce al sole. Quei prodotti, sistemati con cura, sono il libro di ricette da sfogliare all’aperto.  Il giardino senza terra intorno lo aveva ereditato dai nonni; affidata alle loro cure i genitori erano andati ad arrugginire nei freddi turni nella fabbrica del nord. Il nonno in particolare si era adoperato per farla crescere, attento ad ogni sua richiesta: lei era il frutto più bello di quel giardino.
Tutte le mattine lui si recava a irrigare gli orti fiorenti e i giardini di arance con l’acqua della sorgente di “cannella”, facendola scorrere attraverso i formili in pietra. Era il suo lavoro, il solo ingegnere di quei fontanili: l’acqua passava di pianta in pianta, di conca in conca, di terrazzo in terrazzo fino a “molino di mare”. Sfogliando i ricordi della sua storia esce e porta un bicchiere di acqua ghiacciata con latte di mandorla, sul vassoio arricchito di variopinti frutti in miniatura: castagne, mandorle, noci, fichi d’india, ciliegie, tutti fatti di pasta di mandorla e decorati. Li aveva visti creare dalle mani abili di sua nonna, ne conservava la ricetta solo ripetendo quei gesti premurosi. Gustoso ristoro in quel giardino: vasi di latta e di plastica, ciascuno con la propria pianta; persino la vigna di uva spina si fa pergola, trae linfa dalle pietre con le radici del tralcio. Un leggero movimento dell’aria, al profumo di zagare rose gerani, di anice e basilico, in quel momento le spettina e le fa svolazzare l’abito leggero. Lo ferma imbarazzata con il braccio e quelle movenze graziose mi invitano a seguirla; senza dir nulla apre la porta accanto per farmi entrare nel suo laboratorio, fatto di ricordi e di arte. Una grotta scavata nel calcare bianco, come la nicchia e la statua di San Michele con la spada, bianca di calce: qui la protezione dell’arcangelo abita ovunque sulle case. Quel “santuario” artigianale sapeva di pulito e di fresco, a prova di igiene di certi disciplinari. Nella penombra gli occhi luminosi illustravano le sue creazioni: un telaio di legno di castagno, armato di gomitoli e filati colorati con utensili di legno di ciliegio e radica di ulivo, riempiva lo spazio di mezza stanza. Lo aveva costruito con il nonno anzi, ricostruito. I tessuti riposti ordinati uno sull’altro erano le trame variopinte delle sue storie, dei suoi desideri, raccontavano la sua vita. Nel suo regno era ancora più bella; non conoscevo il suo nome, la familiarità di quei momenti non prevedeva imbarazzanti presentazioni. Oltre al suo laboratorio voleva farmi visitare quello della sua amica Rosetta Pirro, in un paese vicino, poco distante dal mare; visto l’interesse, mi affido a lei decidendo di andarci subito. Il breve tragitto è ammantato di mistero di racconti e magia a me sconosciuti, conservati nelle strofe cantate nelle calde serate, accompagnate con musiche e danze popolari. Contaminazioni culturali affascinanti sopravvivono sul Gargano grazie all’eredità dei “Cantori” con la voce calda e innamorata di Antonio Piccininno, splendido novantenne capace ancora di incantare con la bellezza seducente. In silenzio a lei dedico quel corteggiamento, bella, per niente turbata dall’avere i capelli ricci spettinati. Col breve viaggio, sospese tra il cielo e il mare, ci inoltriamo nei microcosmi della “Montagna del Sole”, definizione perfetta per un promontorio proteso verso l’oriente, specchiato nei due laghi di Lesina e Varano, due occhi di taglio diverso bagnati dal mare. Sempre con più fascino usa le metafore delle “Quattro stagioni del Gargano”: immagini di mondi contadini che mutano dentro paesaggi naturali; mi parla con familiare confidenza di Matteo Salvatore, un altro cantore di quelle bellezze e di quelle storie. Tutte queste annotazioni rendono la geografia del Gargano romantica, s’inoltra nel dedalo di valloni che penetrano il massiccio montuoso, anche dal mare; sono unici gli scenari nel fondo valle del torrente Romondato dove, cosa rara d’estate, una piccola sorgente sgorga tra noduli di selce. Ci si va per sfuggire alla calura o cercar funghi, verso la Fulecara “faggeta depressa” fresca e rigogliosa. Resto affascinata da quella sua straordinaria conoscenza di luoghi e di ambienti, così minuziosamente descritti. Le chiedo se le piacerebbe accompagnarmi, avremmo potuto visitare il canale il giorno successivo. Il viaggio di quel giorno si ferma all’ingresso del centro storico: noi dobbiamo seguire per il rione Terra, appunto. La strada conduce alla casa-laboratorio della sua amica. Oltre il portone di legno, aperto anche di notte, la porta a vetri con due tendine stile provenzale dava l’ingresso a una fiaba. Alambicchi di vetro e rame per i rosolii, ciotole con canditi di bucce d’arancia e cioccolato, mandorle tostate e pestate, zucchero caramellato e farina sui fornelli e la cucina, gusci d’uovo aperti sul ripiano di marmo. Dolci “sospiri della sposa” davano il benvenuto in quella che diventa un’altra storia, fatta di donne un tempo sole, di carezze e di dolcezze, di cura.

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