I giudici del Tar Lazio hanno certificato l’esistenza della mafia nel Comune di Mattinata, respingendo il ricorso degli ex amministratori e confermando lo scioglimento dell’ente per infiltrazioni criminali. Nella sentenza sono pubblicati punto per punto gli episodi che hanno portato alla decisione presa dal Ministero dell’Interno nel marzo 2018. Demolita la linea difensiva capeggiata dall’avvocato Pasquale Lanzetta che ha insistito nella negazione del fenomeno mafioso.
I ricorrenti, guidati dall’ex sindaco Michele Prencipe, si sono difesi affermando che una sentenza del genere avrebbe compromesso la loro onorabilità ma, su questo punto, il Tribunale di Foggia è andato anche più a fondo, dichiarandoli incandidabili appena qualche settimana fa. Auto incendiate per autocombustione e altri goffi tentativi dell’avvocato sono naufragati ben presto. Nella sentenza sono invece emerse, in modo fragoroso, tutte le promiscuità tra mondo politico e criminale e le figure compromesse dei dirigenti dell’ente comunale. Tornano alla memoria le figuracce fatte dai rappresentanti della politica locale, che vaghi e facendo spallucce, negavano la mafia davanti alle telecamere della Rai, caldeggiati sui social dai soliti sparuti gruppi di sostenitori e leoni da tastiera, pronti ad attaccare la stampa ad ogni articolo sulla criminalità mattinatese.
Pochi dubbi sulla “continuità – si legge in sentenza – che ha caratterizzato la conduzione dell’ente negli ultimi anni, atteso che ben quattro membri dell’attuale consiglio comunale, nonché il sindaco ed il vicesindaco, hanno fatto parte dell’amministrazione eletta nel 2010”.
Emerge inequivocabile la figura di un grande accusatore a detta del quale il sindaco Michele Prencipe era in “totale continuità con chi guidava l’Amministrazione precedente ‘da cui prende ordini’”. Il riferimento è all’ex sindaco Lucio Roberto Prencipe (PD).
Il grande accusatore è l’ex assessore Raffaele D’Apolito, figlio dell’ispettore di Polizia Bartolomeo (sotto processo per violenza privata e che riferiva di intercettazioni di un sindaco nella masseria del boss). Raffaele D’Apolito che si è dimesso il 24 agosto 2015 “avendoregistrato la inspiegabile forte contrarietà personale del sindaco alla richiesta di chiarimenti in merito all’appalto relativo alla ‘Gestione integrata del servizio di illuminazione pubblica’ nei confronti della “OMISSIS”, società oggetto di indagini per corruzione verso amministrazioni locali e per i consolidati legami con organizzazioni criminali mafiose”, nonché “i gravi e reiterati episodi di stravolgimento delle delibere di Giunta da parte del sindaco, rispetto a quelli discussi nelle riunioni di Giunta”.
Affidamenti al capoclan
“Particolare risalto è dato all’attività gestionale dell’ente con specifico riferimento al settore degli affidamenti di lavori e servizi pubblici – è riportato nella sentenza –, tradizionalmente esposto al rischio di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, nel quale assumono valore emblematico le vicende relative all’affidamento delle opere di realizzazione di un impianto sportivo aggiudicate a gennaio 2014 ad una società il cui socio ed amministratore unico ed il cui responsabile tecnico sono stretti parenti di un noto “capoclan” (Francesco Pio Gentile detto “Rampino”, ucciso lo scorso 21 marzo). La relazione evidenzia che sebbene le opere non risultino concluse, l’impianto risulta aperto e utilizzato, in assenza di certificato di agibilità.
Inoltre, taluni dipendenti della ditta affidataria – che è stata l’unica partecipante alla gara – sono risultati vicini a personaggi di notevole spessore criminale ed hanno tratto vantaggio dall’organizzazione del lavoro adottata dalla ditta medesima”.
Parcheggi e chioschi nelle mani della mafia
I giudici, sempre con riferimento al settore degli affidamenti di lavori e servizi comunali, hanno menzionato “un procedimento ad evidenza pubblica avviato con delibera di giunta di maggio 2016 per la concessione annuale del servizio di gestione di un’area destinata a parcheggio pubblico, sita in una località ad elevata vocazione turistica. Anche in questo caso alla procedura ha preso parte una sola ditta, già concessionaria del servizio nei due anni precedenti, il cui titolare è ritenuto contiguo ad un potente gruppo criminale.
Viene quindi segnalato che un chiosco bar collocato nell’area verde della villa municipale è gestito da una società titolare di una concessione all’occupazione di suolo pubblico rilasciata nel 1995, il cui amministratore unico è un consigliere comunale del quale è stata documentata la vicinanza ad un personaggio con pregiudizi penali, legato alle consorterie locali, società che nel giugno 2017 è stata autorizzata ad occupare una porzione aggiuntiva di suolo pubblico, tuttavia a canone concessorio invariato”.
Inoltre sono segnalati “numerosi affidamenti diretti, sempre alle stesse ditte che annoverano tra i propri dipendenti o amministratori taluni soggetti vicini ad ambienti malavitosi per rapporti di parentela, affinità o frequentazione”.
Accertamenti antimafia omessi
Nella sentenza emerge la “circostanza che il Comune – pur avendo sottoscritto a marzo 2017 un protocollo di intesa finalizzato ad ampliare l’ambito di applicazione delle misure di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 – ha omesso di svolgere accertamenti antimafiacon riferimento alle imprese esercenti attività particolarmente esposte al rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata quali strutture alberghiere, locali di pubblico intrattenimento e stabilimenti balneari. Inoltre, su circa sessanta ditte iscritte nell’elenco dei fornitori dell’ente, soltanto tre sono risultate in possesso di certificazione antimafia”.
Assunzioni sospette
“Il Prefetto e la Commissione di indagine rilevano altresì che a maggio 2014 la giunta – è scritto in sentenza – in violazione della normativa di settore ed attingendo ad una pregressa graduatoria a tempo determinato approvata con determina dirigenziale di luglio 2013, ha disposto l’assunzione in qualità di agenti di polizia municipale, limitatamente alla successiva stagione estiva, di un parente del menzionato pluripregiudicato contiguo alla criminalità garganica e del coniuge di un soggetto di cui sono state documentate frequentazioni con elementi delle consorterie locali. Nello specifico, l’amministrazione comunale ha proceduto all’assunzione delle medesime persone già reclutate a seguito della richiamata determina del 2013, confermandole anche per la stagione estiva del 2015.
Altra vicenda emblematica è quella relativa a due circoli privati titolari di autorizzazioni alla somministrazione di alimenti e bevande ed all’installazione di apparecchi da gioco lecito, notoriamente frequentati da soggetti controindicati, tra cui il “capoclan” (Rampino, ndr) di cui si è detto. In proposito, viene segnalato che a settembre 2017 un dipendente comunale è stato controllato all’interno di uno dei circoli in parola e che al momento del rilascio delle predette autorizzazioni l’amministrazione comunale ha omesso di effettuare la comunicazione di cui all’art. 19, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, provvedendo alla revoca delle stesse a seguito della motivata richiesta in tal senso da parte del Prefetto”.
Contributi all’associazione
“L’Organo ispettivo – riportano i giudici – evidenzia infine che tra i fondatori di un’associazione costituita nel 2016 e beneficiaria di contributi comunali figurano uno stretto familiare del sopra indicato “capoclan”, un assessore ed il summenzionato consigliere comunale, del quale è stata documentata la vicinanza al più volte citato personaggio con pregiudizi penali legato alle consorterie locali”.
La ferocia dei clan
Stando alla sentenza del TAR, l’associazione di stampo mafioso presente a Mattinata, è suddivisa in “batterie che controllano e monopolizzano interi settori di attività illecita, quali il traffico di sostanze stupefacenti e le estorsioni, con la commissione strumentale di una serie di omicidi e tentati omicidi. Comune denominatore è l’efferatezza, la ferocia, ma anche il senso di impunità, in quanto nei molti processi celebrati è stata l’omertà a condizionarne gli esiti”.
Riferisce la relazione che i nomi delle vittime di tali delitti, ivi dettagliatamente riportati, “torneranno più avanti, con inquietante frequenza, collegati a quelli presenti nella compagine politica del Comune, in quella dei suoi dipendenti, nelle società che dal Comune di – OMISSIS – traggono lavori, incarichi, denaro, e tra quelli di chi, a – OMISSIS -, sa di poter approfittare della Cosa Pubblica senza la preoccupazione di controlli e verifiche, sicuro di poter rafforzare e prosperare il proprio ‘rispetto’”.
E ancora: “La relazione osserva che la quantità di omicidi, tentati e consumati, è ancora più impressionante se rapportata alla popolazione: poco più di 6.000 persone sono infatti letteralmente in ostaggio del terrore, autentico, che pochi hanno nel tempo saputo diffondere.
La Commissione osserva che il perseguimento degli obiettivi criminali “presuppone inevitabilmente l’incrocio con i pubblici poteri e, innanzi tutto, con gli enti locali, le cui decisioni o, se si preferisce, le cui politiche, possono essere essenziali per ostacolare tali disegni di infiltrazione. Ovviamente, laddove le classi politiche locali tendono ad agevolare i disegni di infiltrazione mafiosa o, quanto meno, restano colpevolmente o anche per semplice ignavia inerti, il risultato inevitabile è il progressivo consolidamento delle organizzazioni criminali e l’acquisizione di un controllo del territorio anche sotto il profilo delle attività economiche, con conseguenze distorsive sull’armonioso sviluppo delle comunità”.
È inoltre evidenziato che “il Comune in questione è molto piccolo, circa 6.000 abitanti, per cui è non solo ragionevole ma fisiologico che organizzazioni criminali così ampie, così capillarmente diffuse e tanto potenti, abbiano esponenti imparentati con amministratori locali o siano direttamente coinvolti con la gestione della cosa pubblica.
La relazione si sofferma su ulteriori numerosi fatti, anche riguardanti i consiglieri di opposizione, complessivamente indicatori del legame esistente tra gli amministratori ed esponenti delle organizzazioni criminali, o per rapporti di parentela, o per frequentazioni, o per interessi economici e commerciali, ivi comprese le circostanze specifiche su cui si appuntano i rilievi dei ricorrenti.
A seguire la sentenza si sofferma sul contesto politico-amministrativo e sugli addetti agli uffici comunali, alcuni dei quali attinti da precedenti penali o legati ad esponenti della malavita, e riferisce di agenti della Polizia Municipale, “alcuni dei quali censurati ed altri che sono stati vittime di reati, senza tuttavia denunciarli, ovvero denunciandoli senza tuttavia fornire alcun elemento utile alle indagini”.
Non mancano interi paragrafi dedicati al noto pregiudicato “Pasqualotto”, Francesco Ciuffreda, a sua moglie e al consigliere di maggioranza Angelo Totaro.
Infine, “sulla legittimità della decisione impugnata non può incidere la circostanza che il condizionamento mafioso sia esercitato da dipendenti all’insaputa degli amministratori o da alcuni degli amministratori ad insaputa degli altri: non trattandosi, infatti, di una misura “sanzionatoria”, essa non è finalizzata a punire condotte illecite caratterizzate da coscienza e volontà; ciò che conta, in definitiva, è la constatazione che l’attività dell’ente risulti asservita,anche solo in parte, agli interessi delle consorterie mafiose, giacché tale constatazione denuncia che l’organo politico non è in grado, per complicità, connivenza, timore o mera incompetenza, di prevenire o di contrastare efficacemente il condizionamento mafioso”.