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L’autunno in Puglia è una primavera più umile…..

L’autunno in Puglia è una primavera più umile, come una figlia naturale dell’estate:inattesa e dolcissima. Avanza carponi sotto gli ulivi, fa crescere un’erba tenera come il latte.Un’erba che non si vede da queste parti, perché, d’estate, tutto è secco, e di primavera non fanno a tempo a spuntare due foglioline, che subito son fiore, frutto, fieno. Ora è diverso: e l’erba, rada come i capelli dei bambini appena nati, è più un vagito che un’erba. Gli ulivi la guardano, così squadrati onesti e com­patti, come se non la vedessero: eppure sanno che è là, la figlia ultima di una vecchiaia interminabile.È quell’erba insolita e puerile che li fa giovani an­cora: ci scrollano sopra le olive nere, l’erba diritta si rialza. Le olive si insinuano fino a terra: i fili d’erba puntano, entrano nell’aia, se ne fanno un astuccio, come il dito di un guanto. 
Ed è così dolce, quest’aria, ormai il fondiglio dell’estate: se si re­spira con la bocca, se ne sente il sapore, come di un frutto asciugato all’ombra ma carnoso di sole.Il cielo non è più alto, indifferente, come di estate: corso da frotte leggere di nubi esili come fiocchi di fumo, su un turchino appena stinto, ap­pena slavato: anche qui, nel Salento. E il mare è come se meditasse una notte lunga e limacciosa in se stesso, e si sia depositato tutto sul fondo: azzurro, indaco, turchino. Affiora con la tinta stanca dei fiori al limite estremo della fioritura, e giace come sotto una coltre invisibile, come sotto un cri­stallo un po’ sporco, simile a quelli che chiudono dal gelo le piantine che saranno grandi d’estate. Disattento e trascurato: come a sorprendere una ragazza senza trucco, che è bella e giovane, ma coi fuochi riposti, il sonno cocciuto e perentorio del­l’infanzia. « Convinciti – disse Elisa – che vedi tutto quello che non c’è. È solo una giornata un po’ grigia, comunissima ». Ma la smentivano silen­ziosamente le viti, che basse, quasi come una specie nana, non osavano spiegare flabelli di pampani giallo zolfo e rosso vinato, come in Provenza, là dove la terra è altrettanto rossa che in Puglia, e le viti altrettanto basse, e così a perdita d’occhio. Qui i pampani sembravano dissanguati dal loro brillante umor verde: avanti ancora d’esser secchi, prendono il colore delle foglie secche; e, prima ancora, s’erano fatti amaranto, ma non con il co­lore trionfante delle dalie e dei crisantemi, ma come una persona che abbassi gli occhi, e cerchi di scom­parire, di sentirsi lontana mille miglia. Tale è il violaceo di quei pampani, prima di accartocciarsi, che quasi non si avverte, che quasi è un ispessirsi dell’aria serotina, o l’ombra notturna che, depo­sitata sulla terra s’alzerà a poco a poco, leggera im­palpabile e penetrante come un sipario di nebbia, ma chiara. « Se non la smetti – disse Elisa – finirai per farmi vedere anche i fantasmi ». Ma c’erano, i fantasmi, c’erano apertamente, senza sot­terfugio: e di giorno e di notte. Fantasmi solidi, sparsi ovunque, inestirpabili, per quanti se ne ra­duni. Sono le pietre. Le pietre che la terra pugliese ha in sé come i fantasmi del proprio passato, di una storia ignota e preumana. Con un aratro fatto a spillo, un uncino tuttalpiù, il contadino pugliese solca quell’ossario che è la sua terra, di quelle ossa, che, a volerle togliere tutte, sarebbe come preten­dere d’esaurire la sabbia lungo il lido del mare: si fa una buca e quella risorge dal fondo, con l’acqua. Il contadino alza grandi mucchi: poi sceglie, distribuisce, compone a mosaico muri meravigliosi, ce­mentati senza calce, le « parieti »; edifica trulli, pagliare. Dovunque si vada, in Puglia, si vedono pietre che si aggregano, si cercano, si compongono, come se invece che pietre fossero calamite. Ma per­ché sono fantasmi. Sono fantasmi, gli unici veri, che vogliono rivivere nell’epoca del cemento armato la loro prima vita di una storia agli albori, quando tutto era da inventare, e, per un’invenzione sola, non bastavano i millenni a esaurirla. E noi stessi, di quante invenzioni preistoriche non ci serviamo ancora?
Ah già, i mocassini »: fece, con finta distra­zione, Elisa, e guardò da un’altra parte: ma dovun­que guardasse, incontrava quei tronchi di cono, con una leggiadra spirale che portava al ripiano del tetto, e la Puglia preistorica, la Puglia leggendaria ma senza leggenda, si ricostruiva ai suoi occhi col passato nel presente, meravigliosamente solida e fantomatica.
« Andiamocene – disse Elisa – ho voglia di grattacieli ». Ma era l’ultimo guizzo, avvelenata an­ch’essa, stretta nelle spire lente e micrometriche di quelle scalette avvolgenti delle « pagliare ». Era piegata, Elisa, da questa stagione che si presentava come il fantasma d’un’altra primavera che era in­vece l’autunno.
Avevamo già visto diversi menhir nei punti più incongrui, e talora, come a Muro Leccese, rabber­ciati coi sassi spugnosi alla base e il cemento nelle scalfiture, talora nei cortili più modesti, fra i panni tesi. E uno, finalmente, davanti a una cappellina, intanto, infilato nella roccia come un dente nelle gengive, e rozzo, sbilenco, appena inclinato come le gnomone d’una meridiana. Restavano i dolmen da vedere: e quelli davvero sono la casa aperta dei fantasmi. « Sono stanca – tentò ancora Elisa – anche se non è vero, dovresti far finta di crederci ».
Ma il dolmen era già là, quando meno se lo aspettava: a venti, a trenta passi dalla strada. E s’era appena lasciato Giurdignano. Era là, più simile ad un fossile antidiluviano che ad un’opera dell’uomo: così insulso, così decisamente inutile. Il dolmen col pietrone a scivolo, un solo sostegno monolitico, e gli altri raccapezzati come se dovesse, di lì a poco, schiacciarli tutti e finalmente tornare un semplice, uniforme lastrone di pietra. La terra lo inghiotti­rebbe di nuovo, la poca terra che il contadino an­dava grattando – è la parola – fra masso e masso affiorante.
« Ma che ci seminate? »: chiesi incredulo. Mi si rispose con la parola che, dopo l’uomo, è la seconda: il grano. Lì, in quel brindello libero fra roccia e roccia, che la zappa non c’entrava che di taglio: due fili stenti di paglia, con una spiga coi chicchi mezzi vani… L’enorme divario del tempo s’era richiuso, come se si fosse rimarginato un bur­rone, una gravina. L’uomo era lo stesso, quello che aveva issato il dolmen, quello che grattava la terra fra sasso e sasso. Ero lo stesso e il tempo s’era cica­trizzato, i secoli erano sepolti là, fra pietra e pietra, una redola larga come la mano. Ma quello stesso uomo di quel tempo infinitamente lontano e pau­rosamente vicino, aveva fatto di più: aveva innal­zato il pietrone inutile, su quei sostegni inutili, solido e traballante, eterno e caduco. Il suo sosia coltivava ora la stessa ostinata terra, la grattava con lo stesso strumento arcaico; eppure, potendo ser­virsi di gru o altri complicati ordigni, non innal­zava più pietroni di quella specie, per darsi ad intendere che esiste Dio. Faceva lo stesso lavoro, si consumava nella stessa fatica umile, e per solle­varsene, di che potrà disporre? Forse di una bici­cletta, al massimo di una vespa. Il pietrone inutile, l’impossibile recesso se non per il Dio ignoto dei morti, si trovava sostituito da una casa vacua nell’aria vacua, da un’interminabile fuga o intermina­bile ritorno. Quale la partenza e quale l’arrivo? Nulla se non un perenne ubiquitario vagare da un punto all’altro, un saliscendi, come la sabbia d’una clessidra. E invece il dolmen era là, con la sua presenza di relitto fossile d’ un’ epoca fossile del­l’uomo: con la sua tenace, umile, ottusa, insistenza sul suolo: con la testimonianza indistruttibile che solo l’inutile, il superfluo, il disinteressato costitui­scono l’uomo come uomo in un mondo che solo al­lora diviene il suo mondo.
Non il lavoro, non il primo successo del grano seminato e raccolto dalla prima agricoltura, legata alla civiltà megalitica, avrebbero fatto avanzare d’un passo la coscienza nascente: senza queste pietre assurde, senza questa prima trasposizione del sesso nel menhir, della morte e del Dio celeste nel dol­men terreno. Un sesso che si sublima e per questo si distacca da se stesso; da piacere e generazione diviene contemplazione e coscienza.
Non basta vivere, bisogna morire: e vivere sa­pendo che la morte è la verità della vita, l’unico, il solo modo di non morire a se stessi, vivendo.
« Ecco – disse Elisa, che aveva tentato invano di sedersi sul dolmen – oltre che inutili, queste pietre, sono anche scomode ».

Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, Laterza 1979

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