di Nello Biscotti
L’«Uva pergola! Ecco perché stava li davanti alla casetta, perché era la vite del pergolato». Non era una semplice vite, ma una vite con una sua storia, i cui frutti, «vivono sugli alberi infino al gennaio», scriveva F. Della Martora nella prima metà dell’800. È un vitigno vigoroso, con grappoli grandi, acini perfettamente sferici che a maturazione assumono una intensa colorazione rosso-granato; inconfondibili la croccantezza della polpa e il dolce aromatico, ma specifico, dei suoi chicchi. A quei tempi, ci racconterà un contadino, non c’erano dolci e caramelle e per l’occasione della ricorrenza di Tutti i Santi, ai bambini buoni il premio era la calzetta dei morti riempita di un grappolo di «uva pergola».
Nel nostro piccolo viaggio scopriamo che l’Uva pergola era elemento caratterizzante anche per i pergolati dei centri abitati. A Ischitella rinveniamo, ancora in ottimo stato vegetativo, un grandissimo ceppo di Uva pergola, con un tronco grande quanto quello di un albero e alto oltre 10 metri: avrà sicuramente duecento anni, ci dice il signore che si presenta come legittimo custode.
L’Uva pergola la ritroviamo in numerose viti in una vecchia e piccola vigna e qui scopriamo con stupore che la stessa era anche oggetto di vinificazione insieme ad altri vitigni per fare il più volte rinomato vino di Sannicandro.
Tante singole viti le abbiamo rinvenute tra gli uliveti, grandi ceppi spesso abbarbicati ad un mandorlo, stracarichi di grappoli nero-lucenti. Uno in particolare l’abbiamo imparato a distinguere come Uva nera tosta. «E che vino dava quest’uva!», ci racconteranno.
«Gli uliveti erano tutte vigne, in seguito gli ulivi sono diventati grandi e le vigne si sono distrutte. Poi vi è stata la fillossera che ha contribuito a distruggerle definitivamente – ci spiegava sempre ogni contadino, da Vieste a Sannicandro -. Nuove vigne sono state fatte verso l’altura». Tutto è iniziato immediatamente dopo la prima guerra, quando è arrivata la barbatella americana; s’impara a fare l’innesto e si cerca di moltiplicare i vitigni che vi erano una volta, ma tanti si sono sicuramente persi; ne sono arrivati dei nuovi che bravi innestatori garganici, portavano dal Metaponto, dalla Calabria o dagli Abruzzi. Ma pochi se non nessuno era uguale al nostro Nardobello o il Moscatello antico. Tra quelli persi, gran parte erano tardivi. Una volta si vendemmiava a fine ottobre inizio novembre.
Nella grande generalità dei paesi garganici l’oliveto è succeduto alla vigna. A Vieste in un cinquantennio 1.300 ettari «prendono il posto della vite», scrive l’agronomo Raffaele Cassitto (1914). La vigna era la coltura arborea più diffusa; 1.200 versure di uliveti, 1.400 di vigneti (circa 1.700 ettari) secondo la nota statistica del Reame di Napoli (Ricchioni, 1811).
Gran parte degli attuali 16-18.000 ettari di uliveto sono stati vigne.
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